Alberto Manguel
"La Repubblica", 17 maggio 2015
UNO dei più comuni fra i luoghi comuni della letteratura è che il numero delle trame immaginabili sia limitato. Oggi esistono dei saggi eruditi su questo argomento che oltre un secolo e mezzo fa Lewis Carroll riassumeva in Sylvie e Bruno. «Verrà il giorno», scriveva l’autore di Alice, «in cui ogni libro possibile sarà già stato scritto, perché il numero delle parole è finito». E aggiungeva: «Invece di dire “che libro scriverò?”, un autore si chiederà “quale libro scriverò?” ». A quanto pare siamo condannati alla ripetizione.
Ma questa ripetizione è dovuta alle flebili capacità della mente umana o alle percezioni associative di noi lettori? «Poiché la vita è un viaggio o una battaglia», osservava Raymond Queneau, «ogni storia è un’ Iliade o un’ Odissea ». Ma questo perché non siamo capaci di concepire una storia interamente nuova o perché in ogni storia ravvisiamo tracce delle nostre letture precedenti? Il fatto che Le avventure di Pinocchio ci sembrino una rivisitazione di Le avventure di Telemaco (entrambe raccontano la storia di un figlio in cerca del padre) e che ogni nuovo romanzo di Paulo Coelho sembri uguale a tutti i vecchi romanzi di Paulo Coelho dipende dalla scarsità di provviste delle nostra dispensa mentale o dalla nostra capacità di riconoscere la figura nel tappeto di jamesiana memoria?
Sospetto che ci sia una terza possibilità. Noi amiamo la ripetizione. Da bambini vogliamo che la stessa storia ci venga letta nello stesso identico modo, ancora e ancora. Da adulti, anche se ci proclamiamo amanti delle novità, continuiamo a cercare gli stessi giocattoli a cui siamo abituati, di solito sotto l’apparenza di gadget differenti, con la stessa confusa determinazione con cui eleggiamo gli stessi politici sotto l’apparenza di maschere differenti. In questo Chesterton pensava che fossimo come Dio, che a parer suo gioisce della monotonia. «È possibile che ogni mattina Dio dica “fallo ancora” al Sole, e ogni sera dica “fallo ancora” alla Luna», scrive Chesterton. Troviamo conforto nella monotonia.
Gli antichi non si preoccupavano di essere originali. Le storie che raccontava Omero erano ben note ai suoi ascoltatori, e Dante poteva star sicuro che il suo pubblico conosceva (fin troppo bene) i peccati puniti nell’Inferno e i pettegolezzi su Paolo e Francesca. Le cose a venire facevano già parte della nostra esperienza, anche se le ricordavamo poco o le riconoscevamo appena. La storia, come aveva capito Vico, era un ripetersi di cerchi, e noi ascendevamo (o discendevamo) attraverso spirali di tempo e cerchi di conoscenza, come rivisitando luoghi vecchi e familiari. Ora, invece, riecheggiamo il grido di D’Annunzio, «L’avvenire mi apparve spaventoso, senza speranza », perché abbiamo paura di quello che giudichiamo essere l’ignoto remoto. Non ci piacciono le sorprese.
E forse, quindi, nella nostra nuova epoca di ansia, cerchiamo consolazione ripetendo ancora una volta le stesse vecchie storie, perché rafforzano la nostra speranza che plus ça change, plus ça reste tel quel.
Gli eroi della nostra infanzia – Superman, Batman e altri uomini sexy tutti muscoli – sono tornati per aiutarci a immaginare che è possibile lottare per la giustizia, e Sherlock Holmes ha lasciato il suon buen retiro di apicoltore per risolvere problemi esecrabili nel secolo dei villains elettronici e dei truffatori finanziari. Shakespeare creava le sue trame attingendo a Boccaccio e Bandello; noi creiamo le nostre attingendo a film hollywoodiani di appena qualche decennio fa.
C’è un pericolo di stagnazione, nella ripetizione? Non credo. Inevitabilmente, ogni volta che ripetiamo una storia aggiungiamo qualcosa. Ogni storia è un palinsesto composto da strati di narrazioni e ri-narrazioni, e ogni volta che pensiamo di ripetere un aneddoto famoso le parole cambiano pelle durante il racconto e ne assumono una nuova per l’occasione. La legge di Pierre Menard, che ogni testo diventa un testo differente a ogni nuova lettura, si applica all’intera letteratura e a tutte le arti creative. La costanza che cerchiamo nella vita, la ripetizione di storie che pare assicurarci che tutto rimarrà com’era allora e com’è adesso sono, come sappiamo, illusorie. Il nostro destino (Ovidio ce lo ripete da secoli) è il cambiamento, la nostra natura è il cambiamento e ogni storia che raccontiamo e ogni storia che leggiamo è come il fiume di Eraclito, una metafora che (anche questa) andremo avanti a ripetere. Traduzione di Fabio Galimberti
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