Giorgio Fontana
"La Stampa - TuttoLibri", 1 maggio 2015
Esce finalmente per il Melangolo a cura di Susanna Mati una chicca di Karl Reinhardt: I miti di Platone. Smessi per un solo libro i panni del rigoroso filologo novecentesco, Reinhardt si lascia andare a una forma espositiva più libera e ricca di pathos, non priva di punte liriche. La tesi di fondo del saggio è semplice: i miti presenti nei dialoghi sono «il linguaggio dell’anima», a sua volta l’elemento fondante della filosofia platonica: qualcosa che «cresce e si estende fino a diventare Stato e cosmo, sacerdozio e divinazione, contemplazione delle Idee e mondo dei miti». Tale crescita è il ritmo di una riconquista: davanti a un mondo in crisi quale l’Atene a cavallo fra V e IV secolo, Platone accetta la sfida della sofistica rilanciandola a un livello ben più alto — il risveglio dell’antica anima ellenica sotto nuove spoglie, individuali come sociali.
Lo smarrimento che Platone deve affrontare porta così al primo grande rivolgimento verso l’interiorità, che Socrate aveva soltanto intravisto. Il dialogo invita a calarsi dentro di sé per interpretare e ridare senso a ciò che sta fuori: e il mezzo principe di questa straordinaria operazione filosofica e politica è proprio il mito. Il quale tuttavia non entra in contraddizione con l’altro pilastro del sistema platonico: la dialettica.
Certo, è solo ora che logos e mythos si separano in due forme differenti; ma al contempo si attraggono in una tensione tutta nuova: strade diverse per giungere a una più alta conoscenza dell’anima. Come il metodo dialettico si raffina di dialogo in dialogo, così gli sparsi elementi del mito si collegano in affreschi sempre più vasti — in veri e propri cosmi. «Contemplazione e produzione si equilibrano», scrive l’autore: la dialettica si rovescia in mitografia, e viceversa.
Scegliendo un andamento cronologico, Reinhardt traccia un sentiero molto simile al «romanzo della coscienza» della Fenomenologia dello spirito. La storia dei dialoghi platonici diviene così la storia della nuova anima greca: dalla sua dolorosa nascita nei primi lavori aporetici o dall’andamento erratico (il Gorgia su tutti), passando per l’affascinante duello del Simposio (dove Socrate stesso comincia a diventare sempre più una figura mitizzata), fino ai grandi racconti della maturità: la biga alata del Fedone, l’aldilà orfico del Fedro, la perfetta organizzazione della Repubblica. Per trovare compimento nella straordinaria summa del Timeo, dove «il mito si dispiega in una chiarificazione metaforica, cioè imitativa, del mondo, o più esattamente in una produzione del mondo»: non più spiegazione o esempio, ma vera e propria «dottrina sacra» — l’antico mistero cosmogonico sotto nuove vesti.
Di qui la lettura reinhardtiana della teoria delle idee: chi contempla le forme eterne diviene in automatico esperto della misura (dunque dialettico e geometra) e sfrenato creatore di immagini (da cui i miti). Un’interpretazione sulla quale si può discordare, ma che in ogni caso non inquina il valore del percorso, così suggestivo, indicato dall’autore. Un percorso dove l’elaborazione mitica è insieme lo sforzo immenso di creare un nuovo mondo e la reminiscenza dell’universo perduto da dove proveniamo. La lotta esposta nel Crizia fra l’Atene arcaica degli eroi e l’Atlantide delle leggi perfette, e la necessità di trovare una sintesi «impossibile» fra questi due modelli. Nostalgia non consolatoria, e dunque rivoluzione.
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