La donna che pianse per il suo Minotauro
Il loro fu l’incontro tra un sadico e una masochista
Lui era un satiro, un poligamo totale
che faceva soffrire tutti quelli che gli stavano attorno e le sue muse in particolare
“la Repubblica“, 2 marzo 2014
Dario Pappalardo
C’è una foto che rende già l’idea. Picasso è seduto sulla spiaggia con un costumino bianco e la faccia coperta da un cranio di bue. È in quel momento che diventa il Minotauro. Dietro l’obiettivo - estate 1937, sud della Francia - c’è la donna finita per dieci anni nel suo labirinto. Si chiama Dora Maar. Per la storia è solo l’amante più celebre di Pablo: lamujer que llora, la donna che piange delle sue tele, la tradita, la gelosa, la nevrotica. Dora e il Minotauro, Dora in versione canina, Dora con testa e naso enormi e le sembianze deformate dal cubismo. Le pareti dei musei sono piene di ritratti così. Di Henriette Theodora Markovitch, così si chiama davvero, nata a Parigi nel 1907, si ignorano un prima e un dopo Picasso. Nel 1946, quando la relazione finisce, lei è come risucchiata da un buco nero. Si chiude in casa, veste di scuro, vede poche persone. Soprattutto il suo analista, Jacques Lacan, e un padre spirituale. Perché «Dopo Picasso, c’è solo Dio», dice.
A rimettere insieme i frammenti di una vita lunga quasi un secolo - Maar muore novantenne, nel 1997 - è stata Victoria Combalía, curatrice, storica dell’arte e, per vent’anni, detective del “caso Dora”. L’unica persona che, nell’ultimo periodo, ne ha raccolto direttamente confidenze e memorie. Il risultato è una biografia uscita in Spagna nel 2013, Dora Maar. Más allá de Picasso (pubblicata da Circe) e, adesso, una grande mostra che apre l’8 marzo a Venezia: “Dora Maar. Nonostante Picasso” (catalogo Skira). A Palazzo Fortuny saranno esposte, per la prima volta in Italia, oltre cento opere di lei, non di lui: fotografie realizzate negli anni Trenta da una donna libera, che probabilmente sarebbe diventata una grande artista, se non fosse finita nell’ombra del pittore più famoso del Novecento.
«Non ti risponderà mai al telefono, mi dicevano tutti - racconta Combalía - Poi un giorno, superando la paura, l’ho chiamata e il miracolo è accaduto». Dora, che non vuole incontrare più nessuno, le parla. Tra le due inizia un rapporto di fiducia. «Viveva ritirata dal mondo, ma al tempo stesso era ancora curiosa, la conversazione con lei risultava brillante. E la cosa assurda era che, quando mi capitava di incontrare i suoi vecchi amici di un tempo, loro mi chiedevano di portarle i saluti. Ero diventata l’unico tramite con l’esterno». Dopo l’abbandono di Picasso, l’esilio volontario di Dora Maar si fa via via più estremo tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Il rapporto con il più grande maestro del secolo l’ha segnata per sempre. «Per certi versi, il loro fu l’incontro tra un sadico e una masochista - spiega la biografa -. Picasso era un satiro, un poligamo totale, faceva soffrire tutti quelli che gli stavano attorno. E le sue donne in particolare. Amava innescare situazioni esplosive. Quando, nel 1936, ha ormai cominciato la relazione con Dora, le fa incontrare nel suo studio l’amante precedente, Marie-Thérèse Walter, madre della figlia Maya. Le due arrivano a picchiarsi. Lui, rimasto fermo a guardare, commenterà: “È uno dei ricordi più belli della mia vita”. E rinnoverà il copione qualche anno dopo, presentando a Dora la giovanissima pittrice Françoise Gilot, che ne prenderà il posto».
Dell’affollato gineceo di Picasso Dora Maar è la donna più colta, e anche quella con cui l’artista entra più in competizione. «Lui, che pure ne apprezza il lato intellettuale, arriva a sottometterla. Perché “le donne sono macchine costruite per soffrire”, è il suo motto. Esercita il suo sadismo nella pittura: la ritrae prima bella e malinconica, poi come “la donna che piange”, la vittima, e mano a mano sempre più mostruosa. Un giorno, lei mi ha detto: “Si comportava da vero uomo, rivendicava fortemente i suoi diritti”. Intendeva quelli sulle sue donne: un modo elegante per sottolineare che era estremamente maschilista e violento. È incredibile che Dora non abbia mai usato parole negative per descriverlo. In casa aveva centotrenta opere realizzate da lui. Ne era ancora affascinata. O forse, alla fine, aveva fatto pace con se stessa e con l’ex amante. Ricordava ancora con trasporto quei giorni del 1937, quando lui dipingeva
Guernica e lei sistemava grandi lampade nello studio per fotografare le varie fasi di lavorazione dell’opera».
Quegli scatti, ora nella collezione del Reina Sofía, sono tra le opere che saranno esposte a Venezia. «Perché questa mostra - precisa Combalía - restituisce a Dora Maar il suo ruolo di artista negli anni Trenta, prima dell’incontro con Picasso, di donna impegnata a sinistra, nella Parigi dei surrealisti e di Georges Bataille, con cui intreccia una breve relazione e di cui sposa le idee rivoluzionarie. La mia tesi è che, se si guardano le sue fotografie, si capisce che sarebbe potuta diventare celebre come Cartier-Bresson o Brassaï. Aveva uno sguardo molto personale sul mondo. Anche le sue foto più crude, quelle che ritraggono i diseredati e i mutilati di guerra, mantengono come una luce di mistero unica».
In mostra ci sono le immagini che Maar raccoglie per le strade di un’Europa nel pieno della crisi economica: borseggiatori, venditori ambulanti, accattoni, ragazzini con le scarpe spaiate. Lei, che è cresciuta in una famiglia dell’alta borghesia, diventa di casa a La Zone, il quartiere delle baracche ai margini di Parigi: ne ritrae la vita, i bambini, le roulotte e la povertà. Lo stesso fa in Spagna, dove alterna alla documentazione della miseria la festa e i sorrisi delle venditrici del mercato della Boquería di Barcellona. Nel 1934, Dora entra nel gruppo surrealista: Jacqueline, la moglie di André Breton, è una delle sue migliori amiche e l’oggetto di alcuni scatti. Le influenze del movimento sono evidenti in un foto collage finora inedito come Ciechi a Versailles, dove l’artista inserisce sullo sfondo della sala dei re di Francia tutti i ritratti dei non vedenti realizzati durante i suoi viaggi.
Due anni dopo, Paul Éluard le presenta Pablo Picasso alla prima di un film di Jean Renoir. Lei lo conquista giocando a piantare un coltello sul tavolo nello spazio tra le dita. Dirada la sua attività di fotografa, lo segue ovunque. Dirà: «Io non sono stata l’amante di Picasso. Lui era soltanto il mio padrone ». Nel 1945 arrivano le crisi di nervi e il ricovero, l’elettrochoc e Lacan. Il pittore è ormai insieme alla Gilot. «Dora mi raccontò che continuò a vedere Picasso fino al 1946, poi non si incontrarono più. Tra le compagne di Pablo, Marie-Thérèse Walter si impiccò e Jacqueline Roque si sparò alla tempia. Dora cercò di curarsi in tutti i modi e di vivere. Abbracciò la fede e, da progressista che era, divenne profondamente conservatrice. Non ebbe mai più un uomo. Ho trovato dei biglietti che inviò a Picasso ancora negli anni Sessanta. Brevi messaggi: “Spero tu stia bene”. “Mi auguro che pensi anche alla tua anima”. Voleva convertirlo al cattolicesimo. Non ho trovato le risposte di lui, posto che ci furono».
Dora Maar muore a Parigi il 16 luglio 1997. Al funerale partecipano sette persone. La stampa titola: «Sacrificata al Minotauro».
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