domenica 9 marzo 2014

Il classico vicino a noi


La mitografia non passa mai di moda
Una mappatura dei miti greco-latini conterrebbe quasi 14mila nomi e vicende. 
Un manuale per navigarci dentro

Carlo Carena

'Il Sole 24 ore - Domenica'', 9 marzo 2014 

Una mappa completa del mito greco-latino, una genealogia che partendo dal regno di Saturno e dalla nascita di Zeus scendesse per li rami alle divinità olimpiche (Era, Apollo, Afrodite, Ermes, Pallade, Posidone, Ade…; e poi Demetra, Persefone, Dioniso…) e agli eroi (Prometeo, Eracle, greci e troiani…) e alle leggende più poetiche (Adone, Arianna, Dafne…) sarebbe impossibile per la sua vastità. Come attesta la Bibliotheca classica, ora Classical Dictionary del reverendo John Lamprière, apparso la prima volta a Londra nel 1738, ripetutamente e tuttora ristampato manuale di inesauribile vantaggio e attrattiva, utilizzato da secoli da studenti, studiosi, poeti: i biografi dicono che Keats lo conoscesse quasi a memoria e i critici ne hanno rilevato tracce quasi letterali nell'Ode su un'urna greca. Vi figurano circa 14.000 nomi propri, di cui forse la metà mitologici o comunque connessi con la mitologia. È, se non altro, un segno della ricchezza, della penetrazione e dell'insediamento di quel deposito di favole e di verità, di cui era sgomentato anche Boccaccio. Nel Proemio delle Genealogie deorum Gentilium egli scrive di tremare al solo pensiero del soverchio peso di dover addentrarsi «tra gli aspri deserti dell'antichità» per «raccorre lo sbranato, minuzzato, consumato, e quasi in ceneri già ritornato gran corpo de' Dei Gentili, e de' famosi heroi». Per non accostarsi all'immenso «tronco metafisico poetico» di Giambattista Vico, attraverso il quale la sapienza poetica si dirama nella fisica, nella cosmografia, nell'astronomia, nella cronologia e nella geografia: prova della verità e risultati veritieri dei miti, non invenzioni oziose e oscene, o suggestive e arcane, ma storia vera espressa da un'età primitiva del mondo e imborghesita nei rifacimenti delle età "colte". «Non si può dare tradizione, quantunque favolosa – si legge nella Scienza nuova –, che non abbia da prima avuto alcun motivo di vero». Ma proprio questa condizione attraeva poco altri in quello stesso giro di anni. I miti, racconta Fontenelle nella rapida Origine des fables (1724), sono sì espressione genuina e spontanea della fanciullezza dell'umanità, di quei poveri selvaggi che hanno abitato per primi il mondo; ma non per ciò o proprio per ciò meno confusi e menzogneri. Che amore era mai questo degli uomini per falsità manifeste e ridicole? I miti sono «uno dei prodotti più strani dello spirito umano», che vi mescola – miscela la più deliziosa – lo strano al meraviglioso, «filosofia veramente grossolana» di gente ignorante.
Basta e avanza richiamare solamente alcuni miti fondamentali ed esemplari per il loro valore e significato sia nelle religioni e letterature antiche, sia nelle riprese entro le letterature moderne. Queste, specialmente in certe epoche, in taluni generi letterari e in tematiche cruciali, sono state infatti dipendenti o hanno ripreso in vari modi, nel semplice modo poetico o nell'interpretazione e ricreazione letterario-filosofica, grandi e piccoli miti cantati dai poeti classici. Il mito stabiliva un legame per i gruppi in cui veniva continuamente narrato, esprimeva e costituiva i valori e le istituzioni di quella società. L'aspetto religioso o d'intrattenimento è più accentuato negli uni o negli altri, nei miti cosmogonici e teogonici, eroici o genealogici, rituali o eziologici. Li cantava in epoca omerica l'aedo nel banchetto dei nobili, li ripetevano i cori nelle feste locali e panelleniche, li rappresentava il teatro nella città democratica.
Queste sono anche altrettante tappe e luoghi della sua evoluzione… I Greci cercarono di esorcizzare il mito tenebroso e fatale, di iniettargli una forma, che viene dall'intelligenza e dall'arte; di inserire divinità luminose e sane, belle e serene, la solarità senz'ombra, la luce senza tramonti, piuttosto l'umano, e quindi il possibile se non il vero, anche nella mitologia, anziché il mostruoso e l'assolutamente, inutilmente immaginario, come preferiva l'Egitto e preferirà il Medioevo nordico. La decorazione scultorea del Partenone con la Centauromachia, l'Amazzonomachia e la Gigantomachia ricordava a tutti gli Ateniesi gli scontri millenari e immani da cui era nata la loro civiltà; la fatica e il rischio attraverso cui si civilizzano le nazioni e gli uomini. Perché un pensiero era insito sin dagli inizi in una simile immaginazione, e una simile mitologia era obbligata a procedere sino alla filosofia.


La Grecia della Weil

Piero Boitani 

«Tre donne intorno al cor mi son venute», intona Nadia Fusini con Dante, per parlare di Simone Weil, Rachel Bespaloff e Hannah Arendt. Tre donne che si sono sfiorate, talvolta incontrate, che sono comunque legate l'una all'altra da fili sottili, da destini spesso simili, da una sensibilità fuori del comune. Lettrici e scrittrici, prima che filosofe: danzatrici della lingua, vedono «la complicità tra il fantasma della forza e l'attitudine alla sottomissione, il nodo che aggioga vittima e carnefice nella medesima anestesia del corpo e della mente». In un libro allo stesso tempo intimo e chiaro, Nadia Fusini entra, con l'aiuto dell'amata Virginia Woolf, nell'anima (e nel corpo) di Simone, Rachel e Hannah: delicatamente e parlando, per così dire, sottovoce. Affascinata dalle tre, ne narra le vicende, rievoca i personaggi (Auden e Jean Wahl, in particolare), i luoghi e gli episodi che fanno di esse un intreccio: le comprende sino in fondo. Insomma, un libro da gustare e soffrire, che servirà a mirabilmente introdurre Simone, Rachel e Hannah al lettore che già non le conosce, e che si accompagna per fortunata coincidenza al volume che Adelphi, con cura impeccabile, dedica agli scritti sulla cultura e la letteratura greca della Weil, La rivelazione greca. Un libro di intensità e luminosità uniche, dal quale emerge non una filosofia, ma un modo di guardare a ciò che lo spirito ha intessuto. Ecco: «Vocazione di ogni popolo dell'antichità: un aspetto delle cose divine (eccetto i Romani). Israele: unità di Dio. India: assimilazione dell'anima a Dio nell'unione mistica. Cina: modo di operare proprio di Dio, pienezza dell'azione che sembra inazione, pienezza della presenza che sembra assenza, vuoto e silenzio. Egitto: immortalità, salvezza dell'anima giusta dopo la morte mediante l'assimilazione a un Dio sofferente, morto e resuscitato, carità verso il prossimo. Grecia (che ha subito una forte influenza dell'Egitto): miseria dell'uomo, distanza, trascendenza di Dio».
Un'abbagliante capacità di sintesi, una precisione formidabile: si può discutere, pensando a Virgilio e altri, l'eccezione romana, ma non si può negare l'esattezza di questa diagnosi orientata, tagliata sul solo aspetto delle cose divine. È questo, infatti, che interessa a Simone, che l'appassiona, l'ossessiona, la fa vivere di nulla e trascurare se stessa. È Dio. Quello di Eraclito: logos che è pensiero, legge e fuoco (nei frammenti Simone ritrova la speranza, la fede, la nullità delle virtù umane, l'uguaglianza degli uomini, la salvezza come solo bene, la vita come morte dell'anima e la morte come vita dell'anima). Quello di Platone, «autentico mistico, e addirittura il padre della mistica occidentale» (tra le pagine più affascinanti). Quello degli Inni a Zeus di Eschilo nell'Agamennone e dello stoico Cleante. Dio cerca l'uomo, lo chiama: «nel Vangelo», nota Simone, «non si parla mai di una ricerca di Dio da parte dell'uomo. In tutte le parabole è il Cristo che cerca gli uomini». Nella rivelazione greca, miti e testi letterari, secondo la Weil, ritornano costantemente a questo tema. La sua interpretazione si fa, ora, spirituale, mistica: allegorica nel senso che ogni episodio viene letto come allusione a un piano trascendente. La bellissima scena di riconoscimento tra Oreste ed Elettra nell'Elettra di Sofocle, che fa immediatamente pensare a quella tra Maria Maddalena e Gesù nel Vangelo di Giovanni («si crede di avere davanti a sé uno straniero, e invece è l'essere più amato»), evoca «in modo chiarissimo il tema del Dio morto e resuscitato» e implica un doppio riconoscimento: «Dio riconosce l'anima in virtù delle sue lacrime, quindi si fa riconoscere». L'audacia di Simone è pari, qui, a quella di un Padre dei primi secoli (basterà il raffronto con Miti greci nell'interpretazione cristiana di Hugo Rahner). Ma perché i Greci hanno elaborato questi miti? Ebbene, risponde Simone, all'origine della storia greca si trova un «crimine atroce»: la distruzione di Troia. I Greci non se ne sono gloriati, ma sono stati assillati dal ricordo di quel delitto «come da un rimorso» e in esso hanno attinto il sentimento della miseria umana. E per l'appunto, l'intera civiltà greca è una «ricerca di ponti da lanciare tra miseria umana e perfezione divina». La Guerra di Troia, questa prima tra le guerre mondiali (che giungono proprio sino al momento in cui Simone Weil, Rachel Bespaloff e Hannah Arendt scrivono), è il peccato originale della civiltà greca, e l'Iliade, il poema che ne canta un episodio, è il «poema della forza»: la forza adoperata per sottomettere gli altri, la forza che rende chiunque le sia sottomesso "una cosa". Questa forza, secondo Simone Weil, non conosce né requie né redenzione, nell'Iliade: che è una sequenza senza speranza e senza pietà di uccisioni e di morti. Nadia Fusini, nutrita dal grandissimo libro sull'Iliade di Rachel Bespaloff, rimprovera Simone di aver commesso qui un paio di errori d'omissione per sostenere la propria visione del poema. Simone risponderebbe che anche lei ha visto «il trionfo più puro dell'amore», cioè «l'amicizia che sorge nei cuori di nemici mortali», nell'incontro tra Priamo e Achille, uno dei rari «momenti di grazia» dell'Iliade. Ma non è questo ciò che le preme. Al termine del celebre saggio, Simone è invece tutta protesa a dimostrare che la tragedia è la vera continuazione dell'epopea, e soprattutto a suggerire, in paradossale sorpresa, che «il Vangelo è l'ultima e meravigliosa espressione del genio greco, come l'Iliade ne è la prima».
Simone Weil, La rivelazione greca, a cura di Maria Concetta Sala e Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano, pagg. 490; 
Nadia Fusini, Hannah e le altre, Einaudi, Torino, pagg. 160

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