lunedì 3 marzo 2014

Escher, l’olandese volante nei meandri dell’immaginazione


“La Stampa“, 3 marzo 2014

Marco Vallora

Beh, basta sfiorare con gli occhi, od arare, una gremita (d’inganni capziosi) incisione di Escher, per capire che non è facile comunque saper da dove iniziare, da dove intraprenderne l’iniziazione. Da dove spiccare il bandolo aggomitolato dei suoi inacciuffabili e reiterati «nastri di Moebius», che si fanno d’improvviso paesaggi vertiginosi o bestiari barocchi, e che sono un poco le «stringhe» cosmiche della sua «piastrellata» grafica-visionaria. 
Questa, la legge di Escher che c’inquieta, felicemente: non sai bene dove t’intrufoli con l’occhio, e sei già in uscita, precipitando, come in un travolgente tapis roulant verticale, o pattinando tra i riccioli d’una cascata, che rulla frenetica, salendo, come un salmone. Che però è anche un airone, come in una rima visiva (secondo le leggi del barocco Bestiario di Saint-Amand, riletto da Genette. Con i pesci che solcano il cielo, come rapide frecce scoccate, per lasciare ai volatili il sotto-dominio degli Oceani. Paesaggi specchianti, in accordo con il conterraneo olandese Mondrian).
Ebbene, ci piacerebbe incominciare dalla chiusa della lettera, inviata nel 1974, all’agente di Mike Jagger, che gli aveva spedito (sì, il leader dei Rolling Stone in persona) un messaggio innamorato e complice. Di plauso lisergico. Per ottenere anche la collaborazione ad una copertina di Lp, psichedelico. «A proposito» (dopo un bel no categorico): «La prego di dire al signor Jagger che non sono Maurits, per lui, ma/ Molto sinceramente: M.C. Escher». Quasi una sigla di difesa. E di disdegno: troppa confidenza non sta bene, con un signore baudleriano un po’ dandy, di troppa età, per gettarsi nella mischia hippyzzante. Un isolato, un flâneur attardato nella campagna romana, che gli pare subito nordico-olandese (lui nasce nel 1898 nella cittadina fiamminga di Leeuwardenla stessa del «prospettivista teoretico» Vredeman de Vries: una sorta di Luca Pacioli impazzito e peggio che piranesiano, che non può non averlo esaltato, nei suoi sogni infantili). Un riottoso sarcastico e sdegnoso, che nell’Italia littorial-piacentiniana (e qualcosa gli rimane, nella coda dell’occhio, di quel gusto monumentale e neo-greco, partenonico) va però a scoprirsi i micro-scoscesi villaggi della Calabria e degli Abruzzi, che nessuno varcava allora, altro che turismo! E che s’impregna (seguace delle lezioni di Adolfo Venturi) della sintassi sgangherata dei primitivi senesi, che anni dopo Lionello Venturi e Previtali avrebbe illuminato. Che ha a che spartire, lui, con le confidenze giovanilistiche d’uno Jagger, che lo investe con il tu cameratesco e, men che peggio, con i deliri al Lsd di zuzzurelloni vocianti, quando a lui basta semplicemente guardare il diorama del mondo, squadernato, dalla balaustra della sua rifrangente pupilla d’insetto, per vederlo già subito storto e bislacco, sbilenco e capillarmente traforato di trabocchetti topografici. 
Che Dalí (con la sua «paranoia critica», che ti suggerisce di «vedere doppio», di guardare sfalsato) e Magritte (con i suoi calembours visivi) al cospetto, paion principianti? La sua «solitudine», anche in senso grafico, la sua modernissima inattualità, è subito evidente, e lui ne è ben consapevole. Scrive: «Sto cominciando a parlare un linguaggio che è capito da pochi. Mi fa sentire sempre più solo. Dopo tutto, non sto da nessuna parte. I matematici possono essere amichevoli e interessati e darmi una paterna pacca sulle spalle, ma alla fine per loro sono un dilettante. Gli «artisti» in genere si irritano, ed io sono a volte assalito da un immenso senso di inferiorità». Un senso d’inferiorità, che si rovescia subito in una sorta di magnifica alterigia stilistica: di protervia multi-prospettica, speculativa. Vero, è nutrito di molteplici referenze, sottolineate anche dal curatore Marco Bussagli, che ricorda giustamente l’aeropittura di Tato, Dottori e Benedetta Marinetti, ma anche padre Pozzo, il secentesco quadraturista illusivo e poi le anamorfosi di Maignan, e soprattutto le inquietanti vicinanze degli sfondi bifidi del secessionista viennese Kolo Moser. E a questo proposito non bisognerebbe trascurare gl’influssi della Psicologia della Gestalt viennese, con lo studio degli inganni ottici, e poi le teorie di Riegl, sull’ornamento, quale fonte d’astrazione. 
In un’altra mostra romana, Federica Pirani aveva già indicato fonti nostrane d’influenza, ma oltre a Bruno d’Osimo e allo xilografo Triverio, non bisognerebbe dimenticare nemmeno Balsamo Crivelli, risalire alle tarsie lignee dei Lendinara e ricordarsi soprattutto del grande belga Frans Maserel, illustratore di Erasmo e di Tagore, con i suoi grafici «romanzi senza parole». Ma evviva ritrovare qui un animalista superbo come Mesquita, cui Leida dedicò un’agnizione sorprendente. Comunque è la passione per la matematica, per la geometria non euclidea, per la «tassellazione del piano» (complessa teoria spaziale, che Escher va addirittura a scoprire nell’Alhambra moresca) a renderlo così unico, originale. Così gl’incastrati suoi «solidi platonici», cubi, sfere o tetraedri, «simboleggiano in maniera impareggiabile l’umana ricerca di armonia e di ordine, ma allo stesso tempo la loro perfezione ci incute un senso di impotenza». Per cui vano è esplicare. Si vedano i pur utili saggi in catalogo Skira di Odifreddi, Giudiceandrea e Grasselli, con il rischio che tutto rimanga però come appiattito, stirato, risolto. Mentre in Escher è catturante vedere che i suoi camaleonti, monaci e coleotteri s’arrampicano sulle gobbe del mondo per poi rientrarvi. Periodici. Inesausti.

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