domenica 13 aprile 2014

Ultima stagione all'inferno


Finalmente tradotta la corrispondenza del poeta maledetto che fuggì in Africa 
mentre a Parigi diventava un mito

Giuseppe Scaraffia

"Il Sole 24 ore - Domenica", 13 aprile 2014

«La nostra pallida ragione, aveva denunciato Arthur Rimbaud, ci nasconde l'infinito.» Ma, quando decise di esplorare il mondo, ne rimase deluso. Con il suo passaporto consunto il poeta passò dall'Egitto ad Aden fino all'Harar. Eppure neanche quella fuga doveva appagarlo. «Mi annoio molto, sempre. Non ho mai conosciuto nessuno che si annoiasse come me», ammette Rimbaud in questa magnifica prima edizione della sua corrispondenza, sapientemente tradotta e curata da Vito Sorbello, giustamente intitolata Non sono venuto qui per essere felice.
Il poeta passò dall'Egitto ad Aden fino all'Harar. Lo seguiva un pesante baule di pelle, zeppo di carte geografiche, di manuali da falegname e da idraulico. Rimbaud non era un disperato in fuga verso l'autodistruzione, ma un imprenditore attento alla fauna e alla flora. Finalmente era riuscito a diventare uno di quelli che "stringono la realtà rugosa".
Intanto, insieme ma più rapidamente della gloria di Rimbaud, nasceva la sua leggenda. A Parigi si diceva che fosse tornato allo stato di natura o che fosse diventato il re di un popolo selvaggio. "A parte Hugo, si vantava Arthur, nessun poeta francese della fine del XIX secolo ha guadagnato più soldi". Ma i coloni europei non apprezzavano l'abbigliamento trascurato di Rimbaud, i goffi abiti di pesante cotone bianco, che l'ex-poeta si cuciva da solo sostituendo ai bottoni dei legacci. Ad Harar contrasse la sifilide. Poi si comprò una snella schiava abissina, la trattò sempre con gentilezza e la mandò a scuola dai missionari. Quando dovette partire, le diede del denaro e la rimandò a casa.
Era lontano da quella madre scontrosa e autoritaria, dalla campagna e dalla vita opaca, da cui era fuggito la prima volta, approdando al festoso tumulto della Comune di Parigi. Nella capitale, Arthur si era goduto, nel 1871, il festoso tumulto della Comune di Parigi. Poi era tornato indietro. Prima di ripartire per la capitale, si era interrogato a lungo. «Cosa vado a fare laggiù?... Non so come comportarmi, non so parlare...».
Mentre sorprendeva la vita artistica parigina, tutto in lui continuava a parlare della madre amata e detestata, dai calzerotti azzurri sferruzzati a mano al viso paffuto da bambino e all'impronta dialettale della voce. La cauta solidarietà dei poeti parigini lo intimidiva e lo disgustava. «Voglio essere poeta e lavoro a rendermi veggente... si tratta di arrivare all'ignoto attraverso lo sregolamento di tutti i sensi», aveva annunciato. Per Arthur Rimbaud essere veggenti voleva dire non limitarsi alla scontata realtà, ma affidarsi alle onde impreviste del sogno e dell'incubo, alla luce spettrale della disperazione, a tutto ciò che sconfessava il desolante ottimismo del secolo.
Intanto sgomentava quei dandies raffinatissimi con la sua trascuratezza e le sue dissipate abitudini. La chioma irsuta di Rimbaud era piena di pidocchi che si divertiva a buttare sui passanti che gli sembravano antipatici. Chiunque lo ospitava era destinato a pentirsene amaramente.
Solo Verlaine si lasciò travolgere dal "volto perfettamente ovale da angelo in esilio e dagli occhi di un blu pallido inquietante" di quel profeta contadino. Per lui lasciò clamorosamente il tetto coniugale. Insieme i due poeti iniziarono a ubriacarsi e a girovagare per l'Europa, scandalizzando tutti con la loro omosessualità. A Bruxelles il timore dell'abbandono, le liti, la droga e l'alcool esplosero nella rivoltellata di Verlaine. Rimbaud fu ferito al polso. Prima sporse denuncia, poi ritrattò, ma l'amante venne condannato a due anni di carcere. Uscì di prigione pentito. «Verlaine è arrivato qui l'altro ieri, con un rosario tra le dita... Tre ore dopo aveva già rinnegato il suo dio», si vantò spietato Rimbaud.
Ma ormai per Arthur il tempo dell'Europa e della poesia era scaduto. Doveva evadere dalle "paludi dell'Occidente", dalle illusioni dell'arte. Del resto già nella "Stagione in inferno", aveva confessato: «Ora odio gli slanci mistici e le bizzarrie di stile. Ora posso dire che l'arte è una sciocchezza». Come una farfalla impazzita vagabondò per l'Europa. Finalmente in Belgio si arruolò nelle truppe coloniali in partenza per Giava, ma anche lì non resistette a lungo e finì per disertare. Lo attendeva un'altra serie di disordinate avventure, ma sempre, ogni volta finiva per tornare a Charleville, dove era nato e da cui fuggiva.
L'Africa gli sembrò il modo più assoluto di voltare le spalle all'Occidente, all'Inferno, ma anche lì lo raggiunse un eco del passato. "Vivendo così lontano da noi, non sapete, lo avvertì un viaggiatore, che a Parigi siete diventato per un ristrettissimo gruppo una sorta di personaggio leggendario. Questo piccolo gruppo vi chiama maestro." Lo ricorda G Furgiuele in Rimbaud come si difende un mito (Fontana di Trevi ).
L'ultima corsa del "poeta dalle suole di vento", con la gamba in cancrena, fu su una barella, trasportato dagli indigeni verso Aden. Dopo l'amputazione, Rimbaud non si fece illusioni. Non aveva fiducia nelle gambe meccaniche vantate dai medici. Sapeva di essere ormai un invalido, un tronco immobile. Nel 1873 aveva scritto: «Le donne curano / questi feroci infermi di ritorno dai paesi caldi». Fu un malato difficile e scostante, ancora una volta un ribelle. A volte la sofferenza era così insopportabile da strappargli urla di dolore, mentre picchiava il materasso, in attesa della morfina. Lo attendeva la tomba di famiglia, quella del paese da cui aveva sempre cercato di evadere. «L'unica cosa insopportabile, aveva scritto, è che niente è insopportabile».

"Harar, 25 febbraio 1890
Care madre e sorella, non stupitevi se scrivo poco: il motivo principale è che non trovo mai niente di interessante da dire, perché in Paesi come questi si ha più da chiedere che da dire! Deserti popolati da stupidi negri, senza strade, senza posta, senza viaggiatori, che volete che vi si scriva da posti simili? Che ci si annoia, che ci si scoccia, che ci si abbruttisce, che se ne ha abbastanza ma che non si può finire, etc. etc. ... Ecco tutto, tutto quello che si può dire. Poiché questo non diverte nemmeno gli altri, bisogna tacere. In effetti da queste parti si massacra e si saccheggia un bel po'. Fortunatamente, non mi sono ancora trovato in casi del genere, e conto di non lasciare la mia pelle in questi posti – sarebbe da stupidi –. Del resto godo, nel Paese e sulla strada, di una certa considerazione dovuta ai miei modi umani, non ho mai fatto male a nessuno, al contrario, faccio un po' di bene quando se ne presenta l'occasione, ed è il mio solo piacere. Questi affari in fondo non sarebbero poi tanto cattivi, se le strade non fossero a ogni momento sbarrate dalle guerre. La gente di qui non è più sciocca né più canaglia dei negribianchi dei Paesi civilizzati; è tutt'altra cosa, ecco tutto; in fondo, sono anzi meno cattivi e possono, in certi casi, manifestare riconoscenza e fedeltà. Si tratta di essere giusti e umani con loro.
Arthur Rimbaud" 

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