Si cominciò con i calchi in gesso e poi con le repliche in marmo dei bronzi antichi. Oggi, in Oriente, si riproducono intere città
Salvatore Settis
"Il Sole 24 ore - Domenica", 13 aprile 2014
La Cina è oggi il paradiso delle copie: il South China Mall di Dongguan (presso Hong Kong), che è il centro commerciale più grande del mondo, include sette zone modellate su Roma, Venezia, Parigi, Amsterdam, l'Egitto, i Caraibi e la California. Repliche di villaggi austriaci, della Torre Eiffel, del ponte di Rialto, di ville palladiane, di parrocchiali inglesi affollano dappertutto i nuovi suburbi di una neoborghesia: sarà forse perché «l'enfasi barocca, la vertigine eclettica e il bisogno dell'imitazione prevalgono là dove la ricchezza manca di storia» (Umberto Eco)? In un libro recentissimo (Original Copies: Architectural Mimicry in Contemporary China, Hawaii University Press) Bianca Bosker avanza un'altra spiegazione: la Cina ha da secoli una forte tradizione di «appropriazione tematica» di architetture estranee, a cominciare da quando il Primo imperatore, dopo aver conquistato gli ultimi sei regni indipendenti, replicò in scala ridotta nella sua capitale Xianyang i palazzi dei sovrani detronizzati (III secolo a.C.). Fra originali e copie c'è una strana tensione: la copia rende omaggio all'originale, e con ciò ne riconosce la superiorità; ma insieme pretende di sostituirlo, e dunque ne contesta l'unicità. Con un tema così sfacciatamente (post)moderno, pare impossibile che le coordinate culturali siano da cercare oltre duemila anni fa. Eppure questo è vero non solo in Cina ma anche nell'arte classica, greco-romana: lo mostra al meglio un libro altrettanto recente e agguerrito, dovuto ad Anna Anguissola (Difficillima imitatio. Immagine e lessico delle copie tra Grecia e Roma, Bretschneider editore).
All'idea di "classico" associamo senza pensarci quella di unicità, irripetibilità: opere come il Partenone o le sculture di Policleto e di Fidia, lo diamo per scontato, furono create come modelli perpetui, da imitare senza mai sperare di raggiungerli. Non è così. L'idea stessa che vi sia stata un'epoca suprema dell'arte (di solito identificata con i secoli V-IV a.C.) è una costruzione culturale relativamente tarda, una visione retrospettiva elaborata in età ellenistica, quando l'indipendenza delle città greche era travolta dai Macedoni (e poi dai Romani) innescando una forte nostalgia, politica e culturale, del passato. Anche la produzione di copie da famosi originali dei grandi maestri greci nasce nella stessa atmosfera, ispirata da uno sguardo volto all'indietro. Sappiamo (e Anguissola ripercorre lucidamente lo «stato dell'arte») che si cominciarono a prender calchi da numerose statue che ornavano santuari e piazze della Grecia, e che questi calchi servirono poi di modello nelle botteghe dei copisti, mentre con più o meno accurate misure l'originale (spesso in bronzo) veniva replicato nel marmo. Dal bronzo al gesso al marmo: questa metamorfosi materica già mostra che, per quanto fosse meccanico il metodo della riproduzione, alla pretesa precisione dell'esito si accompagnava un qualche spostamento di accento e di gusto. Ma quale era la gerarchia dei materiali? Il gesso, una volta usato per trarne la copia, si buttava via (a Baia se ne è trovato un notevole deposito); ma che cosa voleva dire, per un committente o acquirente antico, veder tradotto in marmo il bronzo del Discobolo di Mirone?
Per rispondere a questa domanda, Anna Anguissola ha scelto una prospettiva erudita e raffinata insieme: e nelle pagine del suo libro documentatissimo usa i linguaggi e il lessico delle copie per mettere in scena la recezione delle opere d'arte antica. Vi furono infatti nell'antichità non solo collezionisti e viaggiatori per templi e per città, ma anche "conoscitori", che amavano conversare, riconoscersi fra loro nelle coordinate di un linguaggio ammiccante, prendere in giro i falsi esperti senza ammetterli nel loro club esclusivo. Insomma, si formò allora un «discorso sull'arte» con le sue regole del gioco, una tessitura concettuale e verbale che ebbe forma orale ma fu tradotta anche in appositi trattati sulla pittura e sulla scultura: la più antica forma di «storia dell'arte» della tradizione europea. Riassunti da Plinio il Vecchio e da altre fonti romane, quei trattati avrebbero poi determinato, secoli dopo, la rinascita della storia dell'arte che porta i nomi di Ghiberti, di Vasari, di Winckelmann.
Anche nel lessico delle copie fra Grecia e Roma si riflette la ricchezza di una sofisticata estetica della recezione, nella spola fra artista e pubblico, fra orale e scritto, fra pratiche di bottega e gusto dei collezionisti. Ma, per implicazione, anche fra antico e moderno: per secoli, infatti, si stentò a capire che la maggior parte delle statue "greche" emerse dalle rovine di Roma erano in realtà copie di età romana, e perfino l'Apollo di Belvedere, idolatrato da Winckelmann come ideale greco di bellezza, si rivelò copia da un originale in bronzo. Che cosa impariamo dal glossario analizzato da Anguissola? Per esempio, la frequenza di termini come aemulatio, imitatio che si riferiscono non tanto alla precisione della copia, ma alla capacità del copista di accostarsi alle caratteristiche di stile di un maestro. O l'uso di parole che, nel menzionare la copia di un'opera d'arte, ricalcano quelle usate per descrivere la copia di un testo letterario da un manoscritto all'altro: per esempio nell'opposizione tra "archetipo" (originale) e "antigrafo" (copia), che ricorre in Luciano. O ancora il termine paradeigma, che nei testi greci (specialmente epigrafi) designa i modelli plastici che gli scultori approntavano per mostrarli ai clienti e negoziare con essi la forma finale dell'opera ("bozzetto" è in molti casi la traduzione italiana più appropriata).
In questa trama di parole, i fatti contano molto. Nulla incarna l'assidua ricerca degli originali greci quanto la storia di Winckelmann e del Sauroctonos («Apollo che uccide la lucertola») di Prassitele. Winckelmann sapeva da Plinio che l'originale era di bronzo, ma volle convincersi che un marmo in collezione Borghese fosse l'originale, poi lo cercò in una statua Albani in bronzo (oggi sappiamo che sono entrambi delle copie).
Ma anche gli Antichi andavano in caccia degli originali: Silla portò via da Atene il famoso quadro di Zeusi La famiglia dei centauri, ma la nave che doveva portarlo a Roma naufragò; tuttavia, Luciano ricorda che al suo tempo (II secolo d.C.) un pittore ateniese ne aveva in bottega una copia fedele, pur essendo «immagine dell'immagine». Nel 140 a.C. il re di Pergamo Attalo II spedì a Delfi tre pittori, incaricati di copiare per lui i famosi affreschi di Polignoto: una «spedizione copistica» immortalata nel marmo di un'iscrizione. Desideratissima era la tavola della Venditrice di ghirlande di Pausias (IV sec. a.C.), tanto che trecento anni dopo il ricchissimo Lucullo, per portarsene a Roma una copia, pagò a un intermediario l'enorme somma di due talenti.
Quanto complessa fosse in età classica l'«appropriazione tematica» mediante le copie, infine, lo mostra una parola, aphídryma ("trasposizione"). Essa si riferisce alla duplicazione di statue o di edifici in un contesto sacro, come le repliche di una statua di culto o i templi minori edificati sulla falsariga di un tempio-modello. In questi casi, la copia trascina con sé la trasposizione dei riti e dei sacrifici. Perché fra originale e copia s'interpone, inavvertito ma essenziale, un tertium, il filtro delle pratiche socio-culturali che a una copia, surrogato, Ersatz, possono conferire un rango inferiore o eguale al suo archetipo, ma anche (più spesso) del tutto indipendente da esso: una nuova, palpabile, densa «verità della copia».
Nessun commento:
Posta un commento