La valle incantata che nasconde Madone in attesa
"La Repubblica", 16 luglio 2014
Le dee acquatiche sono ancora fra noi. E il loro ultimo rifugio è la Valtiberina. Da questo imponente anfiteatro che, inseguendo il cammino del Tevere, scende dalle alture del monte Fumaiolo fino a Città di Castello, le ninfe non sono partite. Con buona pace di T. S. Eliot sono ancora loro le testimoni delle notti d'estate, le signore di fiumi e sorgenti che scorrono nelle vene di questa terra in stato di grazia. Fonti sulfuree, laghetti incantati, polle fumiganti, ruscelli saltellanti, zampilli trasparenti. Una natura in stato di perpetua effervescenza. Dove nulla è immobile e tutto è vivo, animato da un soffio epifanico.
Sembra l'immagine del panta rei eracliteo. Non a caso Plinio trovava qualcosa di sacro in questo pendio che, passando per Sansepolcro e Anghiari, declina dolcemente verso valle. Come l'acqua che scorre. Un movimento fluviale interrotto solo da borghi, cappelle, sacelli, tabernacoli e pievi che sembrano essere stati messi lì apposta per separare le acque dalle acque. Uno scenario da Genesi che aiuta a capire perché in principio di tutto fu l'acqua, madre degli esseri e delle cose. E perché da queste parti la generazione è da sempre il culto per antonomasia, il tabernacolo liquido dell'immaginario.
Molto prima che il cristianesimo trionfante insediasse le sue Madonne in Maestà, qui regnarono le Grandi Madri italiche. L'etrusca Uni, creatrice della vita, la romana Cerere, dea delle messi, Lucina, colei che porta i bambini alla luce. E una miriade di divinità minori partorite dal ventre di una terra madre sempre gravida di forme. Come le cosiddette pietre della gravidanza, ex voto a foggia di utero, e le pietre lattaiole, chiamate anche "mamme longobarde", che venivano usate come amuleti da appendere al collo delle puerpere perché la montata lattea fosse abbondante. Ma anche per difendere il seno materno dalle dame bianche, quelle che rubavano il latte. Fino alla fine della Seconda guerra mondiale, le donne evitavano di portare nei boschi i bambini non svezzati per paura del sortilegio delle pallide silfidi. Mentre, per propiziarsi la pro- tezione delle antiche signore dell'acqua, le donne incinte immergevano gli abitini dei nascituri nelle fonti sacre. E offrivano pane, miele, spighe di grano. Ma anche gigli, i fiori di Giunone. E delle focacce di farro che venivano chiamate addirittura placente. Gli stessi doni che dopo la cristianizzazione vengono offerti alle Madonne del latte, che raccolgono il testimone delle dee pagane. Non a caso fino a pochi decenni fa in queste campagne si usava mettere le placente in vasi a forma di utero e calarle nei pozzi vicini alle chiese e alle fontane benedette per favorire la lattazione.
Una vera e propria archeologia della maternità che ha il suo perturbante epicentro sacrale a Monterchi, dove regna sovrana la Madonna del Parto di Piero della Francesca. La più enigmatica delle Vergini col pancione. Che in questa parte d'Italia erano numerosissime, fino a quando la Chiesa a fine Cinquecento non considerò sconveniente l'esibizione del ventre gonfio, cancellando la maternità vera di Maria in favore di un dogma senza corpo. Madre-bambina e matrona implume, la definì Pasolini, che fece della giovinetta dallo sguardo adulto e dalla cera impassibile l'archetipo della maternità.
Un affresco che non è un affresco. Ma piuttosto una reincarnazione della genitrice primigenia, della Grande Madre nascosta sotto il manto della Madonna. E non è un caso che Piero l'abbia dipinta per la cappella di Santa Maria della Selva, in quel luogo silvano abita- to da sempre dagli spiriti della natura. Perché anche il suo immaginario era abitato da quelle stesse potenze femminili, da quell'abisso materno che si riflette negli occhi di nostra signora del parto.
E proprio come una padrona della vita e della morte l'ha sempre trattata il popolo della valle del Cerfone. Il fiume che fu sacro a Cerfia, la dea italica che regolava i destini femminili. È dalla fine del Quattrocento che le donne qui hanno fatto di questa icona mariana la protettrice delle puerpere, la santa delle gravidanze impossibili, la suprema levatrice celeste. E quando nel 1944 Goering ordinò alla Wehrmacht di portare l'affresco in Germania, il soprintendente di Arezzo corse a murarla nottetempo per sottrarla alla razzia. Ma si trovò accerchiato da una schiera di donne armate di falci, roncole e forconi, decise a linciarlo perché lo avevano scambiato per un ladro. La stessa cosa nel 1954, quando si sparse la voce che la Madonna sarebbe andata in prestito a Firenze per una mostra sul Rinascimento, la popolazione muliebre insorse. E non ci fu verso di far muovere il dipinto. «Come facciamo noi senza di lei», si giustificarono le ribelli, «il parto è pericoloso e un conforto a noi non ce lo dà nessuno, è solo lei che ci protegge e che ci aiuta a sopportare il dolore».
Una volta le puerpere bevevano l'acqua di una fonte vicina alla chiesa e per scongiurare il taglio cesareo toccavano il vestito e la pancia di Maria. E ancora oggi le partorienti le offrono fiori e spighe, nonostante non si trovi più nella cappella originaria, ma in un museo ospitato in una ex scuola. Facendo cortocircuitare l'immagine di culto e il culto dell'immagine. Che da oggetto di devozione diventa oggetto d'arte. Eppure non tutto è perduto. Visto che qualche mese fa mi è capitato di vedere una visitatrice che ha estratto un bouquet di spighe e roselline dalla borsa e dopo averlo appoggiato furtivamente sulla sua pancia lo ha deposto ai piedi dell'icona. Una scena da Tarkovskij. Che proprio alla Madonna di Piero dedica la bellissima sequenza iniziale di Nostalghia . «Anche lei desidera un bambino? O vuole la grazia per non averne?», dice il sacrestano alla protagonista, Eugenia, che assiste attonita a un rito di fertilità che sembra sbalzato fuori dalla notte dei tempi. E poi aggiunge, «Purtroppo, quando c'è qualcuno che è distratto, estraneo all'invocazione, allora ‘un succede nulla!». E questo antico legame di pancia tra donne e madonne resta nelle pieghe del regolamento museale che, per disposizione di Comune e Soprintendenza, concede l'ingresso gratuito a tutte le signore in attesa. Evidentemente le antiche madri non si lasciano strappare le chiavi della vita.
"La Repubblica", 19 luglio 2014
Medea salvata dal Dioniso dei cristiani
IL SALENTO è terra di incantesimi. Stretta tra il morso della tarantola e il rimorso di Medea. Dèi e demoni si fronteggiano da sempre in questa penisola sospesa tra due mari. Proprio come Ottavia, la città-ragnatela di Calvino, è sospesa tra due abissi. Le sue strade si congiungono, si separano e si attraversano senza mai spezzare quella linea nera che striscia in tutte le direzioni, come un'inesauribile bava di ragno. Ciascun paese è collegato a tutti gli altri in una tela infinita che si estende tra l'Adriatico e lo Ionio. Sopra arenili incastonati in trasparenze cristalline si levano cattedrali di roccia rose dalla salsedine e rovine calcinate dal sole.
Torri costiere che il tempo ha tagliato letteralmente in quattro spicchi, come cocomeri di tufo ingiallito. Questi fossili di una storia in stato di ossidazione sono l'ultimo rifugio di dèi in esilio. Acquattati nei simulacri androgini di vescovi rococò. O nascosti negli occhi senza fondo di Addolorate nerovestite come Demetra in lutto. Mimetizzati nel candore abbagliante di chiese seicentesche su cui piroettano statue di santi ballerini. Sopra tutti sta San Paolo. Il signore delle tarantole, l'apostolo ambiguo di questa regione di estri smarriti e di tormenti ritmici. Lu santu governa da sempre i tremori e i furori dei tarantolati. E li guarisce facendoli ballare, come baccanti invasati da un Dioniso cristiano. Scatenati dalle spirali sinuose del violino e dal battito ostinato del tamburello che intonano l'antidoto ritmico al male oscuro di una terra in trance. Contro il quale non c'era altra cura se non la pizzica, un ballo sfrenato, circolare che durava giorni e giorni, finché San Paolo non concedeva la grazia della guarigione. Fino al nuovo morso, che arrivava puntuale a un anno dal primo. Come un'irresistibile recidiva coreutica. Una invitation à la danse cui non si poteva che obbedire.
Morso e rimorso. Era questo l'inesorabile algoritmo del tarantismo. Che all'inizio degli anni Sessanta il grande antropologo Ernesto De Martino raccontò in La terra del rimorso , un libro destinato a iconizzare il Salento, facendone il simbolo di una faglia meridiana che divideva la nazione in due. Per l'Italia del miracolo economico fu uno shock culturale. In quegli anni il Belpaese, in piena euforia da benessere, scoprì scandalizzato l'esistenza delle spose di San Paolo - così venivano soprannominate le donne morse dal ragno - che, vestite di bianco, roteavano freneticamente come dervisci sull'asse smarrito della loro vita. O saltavano come menadi sulle note ossessive di una tarantella suonata da musicisti sciamani. O si arrampicavano sull'altare della cappella di San Paolo a Galatina con l'agilità spiritata di ragni equilibristi.
Oggi, per fortuna, in pellegrinaggio nella barocchissima Galatina non ci vanno più i tarantati ma i turisti in cerca di buone vibrazioni. Perché l'ombra dell'Aracne mediterranea non ha mai abbandonato questi luoghi. Resta tra le spighe del grano e le foglie del tabacco come una cifra nascosta, che si rivela nei bagliori visionari della campagna abbacinata dal sole. E risorge nel riverbero bizantino del tramonto, quando il cielo diventa un'iperbole scarlatta sospesa sopra un orizzonte di assoluti. O risuona nelle notti di tempesta a Punta Ristola, all'estremità del sacro finisterre di Leuca, dove i pescatori dicono di sentire il pianto dei figli di Medea - Mermero e Fere - fatti a pezzi e gettati in quel tratto di mare dalla crudelissima madre. I due innocenti si trasformarono in pietre. Gli scogli dannati. Li chiamano così le donne, che ti raccontano ancora questa terribile storia in grico, il melodioso dialetto greco che si parla da queste parti. E quando le loro voci acute e concitate si accavallano sembrano lamentatrici uscite da un coro tragico.
Proprio a due passi da questo tacco d'Italia, nella chiesa di Santa Maria del Vereto a Patù, si trova ancora un affresco sbiadito che rappresenta Santu Paulu de le tarante con in mano una spada intorno alla quale sono attorcigliati due serpenti. Mentre ai suoi piedi sta uno scorpione sormontato da due serpi intrecciati a forma di caduceo. Quello che gli antichi identificavano con il magico scettro di Hermes. Ma anche con il taumaturgico colubro di Esculapio, il dio medico. Quel bastone miracoloso è come un testimone che passa dalle mani degli antichi numi della medicina a quelle dell'Apostolo delle Genti che ne ereditò i poteri. E a Giurdignano, a due passi dallo scenario mediorientale di Otranto, c'è una minuscola cripta bizantina scavata sotto un menhir. Molti ci vanno nottetempo ad accendere lumini davanti a un affresco che raffigura San Paolo sullo sfondo di una ragnatela. È la fotografia di una storia andata in polvere, che lascia il posto a una sorta di archeologia vivente, o piuttosto sopravvivente.
In realtà il sottile filo del ragno non si è mai spezzato e anche oggi la taranta continua a tessere la sua tela. La differenza è che ora quello che fu il simbolo di un Mezzogiorno dell'anima, stretto fra emigrazione e possessione, religione e superstizione, è diventato un attrattore turistico. Ispirando negli anni Novanta la politica di giovani amministratori locali che invece di vergognarsi di quell'eredità e di seppellire il ricordo della tarantola hanno rovesciato il senso di quel passato trasformandolo in una chance di futuro. Un esempio per tutti. La Notte della Taranta, che ha fatto del ragno un simbolo positivo. Il logo antico di una nuova economia sostenibile. E la pizzica, che fu l'emblema del ritardo storico del Sud, è diventata il motore di un distretto culturale e produttivo capace di coniugare tradizione e innovazione, identità locale e marketing territoriale. Ecologia e benessere. La taranta insomma pizzica ancora. Ma adesso il suo morso fa fare salti di gioia. E finalmente in Salento si balla senza rimorso.
"La Repubblica", 16 luglio 2014
Quel lago fatato con vista sull'Ade
L'IMBOCCATURA dell'inferno si trova nei Campi Flegrei. A dirlo è Galileo Galilei che, nel 1588, dopo attenti calcoli matematici, comunica solennemente all'Accademia fiorentina che la selva oscura di Dante si trova proprio tra il Lago d'Averno, Monte Drago e la Solfatara di Pozzuoli. Mescolando scienza e fantascienza, l'autore del Dialogo dei massimi sistemi dimostra che quello scenario di fuoco e di acqua, dove tutto si mescola, ribolle, sbuffa, svapora è il vestibolo dell'Ade.
Del resto ne erano già convinti i Greci che, abbacinati dalla bellezza inquieta e dal tremore epifanico di questa natura, ambientarono tra i boschi sacri di Cuma e l'imponente falaise di Capo Miseno la battaglia cosmica tra Giove e i Titani.
Furono i coloni eubei a inventare il nome Campi Flegrei, da flegraios che significa ardente. Da allora gli dei dell'acqua e del fuoco, esiliati in questo perturbante underground, non hanno mai smesso di far sentire la loro voce. Certificata dall'expertise dei più grandi ingegni dell'Occidente. Da Omero a Virgilio, da Dante a Goethe, da Petrarca a Flaubert, da Boccaccio a Turner. Da queste parti ogni insenatura, bosco, fumarola, cratere segna un accapo nel mito. E in ogni sito echeggiano, come un mormorio lontano, le sorgenti remotissime dell'immaginario mediterraneo. Qui Omero avrebbe collocato il paese dei Cimmeri, eternamente avvolto dai vapori sulfurei, dove Ulisse, prima di calarsi nel regno delle ombre, viene a interrogare l'indovino Tiresia.
E sempre qui, sulle sponde di quello che ancor oggi si chiama lago d'Averno, sarebbe giunto Annibale per fare sacrifici a Plutone — re degli Inferi — e conquistarsi i favori delle tenebrose divinità del sottosuolo. Prima fra tutte Ecate, la regina della notte, cui Virgilio nell' Eneide attribuisce la custodia dei boschi che circondano tuttora questo specchio d'acqua, alimentandone l'aura soprannaturale. È dalle sue sponde che Enea scende nell'Ade, scivolando sulle acque plumbee identificate con quelle del mitico Acheronte, a causa delle esalazioni di gas che accrescevano l'aura infernale del luogo. «Ventum erat ad limen» — era giunto al limite — la scritta virgiliana che campeggia su una lapide ci ricorda che qui tutto è soglia. Ed è impossibile, anche per i più distratti, non accorgersi di esser giunti «al limitar di Dite».
L'ultima volta che ci sono andato, Ecate era di corta. Al suo posto c'era un vecchio bianco per antico pelo. Mi ha radiografato attraverso le sue lenti spesse come fondi di bottiglia e si è presentato come l'ultimo Caronte. Sono stato al gioco e dalle rovine del tempio di Apollo mi sono lasciato condurre attraverso l'intrico del bosco. Ci siamo infilati in un antro scavato nel tufo. Abbiamo attraversato un lungo corridoio appena rischiarato da una fila di lumini fino a una cisterna. Sul fondo mi è sembrato di vedere degli affreschi. A quel punto il mio accompagnatore ha detto che proprio lì la Sibilla pronunciava i suoi responsi enigmatici. E con lo sguardo perduto nel vuoto ha cominciato improvvisamente a declamare «Ibis redibis non morieris in bello ». La più celebre delle sentenze sibilline. Andrai e tornerai, non morirai in guerra. Ma basta spostare la virgola dopo il non, e significa l'esatto contrario. La metrica di Caronte era improponibile ma l'effetto irresistibile. Degno di Totò all'inferno.
In realtà, secondo gli archeologi, il vero antro della pitonessa si trova nell'acropoli di Cuma. Centotrentuno metri di cunicolo scavato nella roccia e illuminato da sei aperture laterali, senza altra funzione che guidare i passi e lo sguardo verso il profondo dello speco dove la profetessa, posseduta da Apollo, andava in trance e pronunciava i suoi oracoli. Che hanno guadagnato a Cuma la fama di Delfi italiana. E ne hanno fatto la meta di esoteristi, maghi, ghostbusters in cerca di buone vibrazioni. Fra Bacoli e l'Averno si celebrano dei veri e propri sabba di janare, o meglio di anare, le moderne adepte di Diana, che organizzano vere e proprie olimpiadi della mantica. La specialità più richiesta è la divinazione col setaccio, l'oggetto che separa la pula dal grano e, in senso figurato, il falso dal vero. Ne parla già Teocrito trecento anni prima di Cristo e nel Cinquecento il grande alchimista e filosofo tedesco Cornelio Agrippa di Nettesheim lo rilancia in tutta Europa. Il setaccio viene fatto ruotare sulla punta di una forbice, e consente alla medium di entrare in contatto con le potenze dell'aldilà. A Cuma raccontano ancora di un certo don Antonio, uno sciamano flegreo, che era capace di farsi così piccolo da entrare in una bottiglia. Come un diavoletto di Cartesio. E tra Miseno e Baia, dove nelle notti d'estate compare il fantasma di Agrippina, la dissoluta madre di Nerone, fino a pochi anni fa molti andavano a farsi leggere il futuro nei fondi di caffè da una donna misteriosa che tutti chiamavano semplicemente la Turca. L'ultima erede di quella genia di ottomane, berbere e siriane che dal tempo dei Normanni esercitavano la stregoneria nel Mezzogiorno.
Nonostante il cristianesimo abbia cercato in tutti i modi di congedare i geni pagani trasformandoli in spettri e in demoni, loro rifiutano di farsi sfrattare. E sopravvivono sotto mentite spoglie. Nei supermercati, ristoranti, spa, discoteche, stabilimenti balneari che portano ancora i loro nomi. Si nascondono perfino nelle chiese. Come quella dove fu decapitato san Gennaro, in mezzo ai bollori e ai vapori della Solfatara. Una cronaca del Seicento racconta che i frati durante la notte erano tenuti in scacco dagli dei spodestati, che scatenavano contro di loro le forze infernali. Per fronteggiare la ribellione dell'Averno, i cappuccini montavano la guardia h24. E ogni 19 settembre, quando nel duomo di Napoli il sangue più famoso del mondo ribolle prodigiosamente nelle ampolle, a Pozzuoli la pietra dove la testa del santo è caduta, risponde altrettanto prodigiosamente ravvivando le tracce ematiche del martirio. Come un display soprannaturale. Un allarme rosso, enigmatico quanto il responso della Sibilla.
Insomma qui il mito sopravvive in una sorta di presente remoto. Contaminato, plastificato. Anodizzato, come gli infissi delle costruzioni cresciute tra soffioni e fumarole. Villette abusive con vista sull'Ade.
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