Carlo FRANCO
"Il Manifesto - Alias", 20 luglio 2014
Molti storici hanno indagato la crisi che a Roma travolse la repubblica aristocratica fino all’instaurazione del regime di Augusto. E molti hanno raccontato la vita del figlio adottivo di Cesare, che da leader di una fazione della guerra civile divenne ‘princeps’. Nessuno in età moderna lo ha fatto però con la forza e l’efficacia di Ronald Syme (1903–1989), storico neozelandese trapiantato a Oxford, in The Roman Revolution. Il libro, che esamina l’ascesa dell’Augusto con lo sguardo rivolto ai dittatori dell’Europa novecentesca, uscì nel settembre del 1939. La concomitanza con lo scoppio del conflitto mondiale poteva nuocere: la guerra avrebbe presto imposto una differente agenda all’interpretazione dei governi totalitari. Ma l’opera di Syme mantenne la propria forza, e proprio dal dopoguerra ha esercitato un’influenza durevole sugli studi. Il libro fu tradotto in italiano nel 1962, su suggerimento di Arnaldo Momigliano. Lo storico, costretto all’esilio in Gran Bretagna dal 1938, aveva prontamente recensito Syme in una delle sue prime pubblicazioni all’estero e firmò la prefazione all’edizione italiana. Altre edizioni nelle principali lingue europee seguirono negli anni. Nel frattempo, dopo la pubblicazione degli altri suoi libri, Syme era ormai «l’imperatore della storia romana» (come lo definì Glenn Bowersock). Ora opportunamente La rivoluzione romana torna in libreria, complice il bimillenario della morte di Augusto (morto nel 14 d.C.), con nuova introduzione a cura di Giusto Traina, che analizza efficacemente la ricezione del libro (traduzione di Manfredo Manfredi, «Piccola Biblioteca Einaudi Ns», pp. XXXVIII-650).
Al successo così prolungato del lavoro di Syme ha contribuito, oltre al soggetto, lo stile particolarissimo dell’autore. La storia di Roma dal dominio di Pompeo alla fine del principato di Augusto è raccontata in pagine nervose e taglienti, che consapevolmente guardano a Tacito (lo storico romano a cui l’autore dedicò, anni dopo, un grande studio). Secche frasi liquidano miti e grandezze: le celeberrime Filippiche di Cicerone appaiono «un eterno monumento di eloquenza, di rancore, di travisamento dei fatti», opera di un politico vittima di una «costante illusione». La politica è studiata nella sua forma più cruda, descritta com’è senza speranza e senza ideali. L’oligarchia romana non era stata in grado di mantenere il conflitto entro i confini della lotta per potere, ricchezza o gloria: altri temi erano emersi, con la forza del denaro e delle armi. Cesare, aristocratico fino al midollo, si era appoggiato a senatori e cavalieri, ma aveva promosso anche uomini che venivano dalla periferia, nuovi alla politica. Come risultato, la fazione che sostenne poi il giovane erede di Cesare aveva compreso personaggi «privi di scrupoli, arricchiti dalla guerra e dalla rivoluzione», e il nuovo ordine seguito alla feroce lotta era di fatto plutocratico. Non c’era solo Mecenate con i suoi pensosi letterati.
Al centro del racconto, oltre ai singoli protagonisti, stanno più in generale la lotta di vari ‘partiti’ e la crisi convulsa di una classe dirigente. I nodi familiari e politici che stringevano tra loro tutti i politici di primo e secondo piano nella Roma della tarda repubblica sono evocati con precisione (secondo il metodo «prosopografico») ma anche con una strabiliante comprensione «dall’interno», che ha fatto pensare per analogia allo sguardo di Proust (cui Syme dedicò uno scritto, rimasto inedito ma recentemente pubblicato). In questa focalizzazione sulle élites è stato riconosciuto da tempo il senso e il limite del lavoro: davvero, come scrisse Momigliano, la storia di Roma si poteva ridurre alla lotta tra fazioni, allo studio dei ristretti gruppi che si contesero il potere per decenni, quando venne meno il precario equilibrio della repubblica? Quale fu il ruolo degli eserciti, delle provincie e, su un altro piano, dei moventi economici? Temi questi non estranei a Syme, che alle carriere di personaggi ‘provinciali’ dedicò studi particolari di grande rilievo, ma che restano sullo sfondo nella sua opera maggiore. La rivoluzione romana non voleva essere un lavoro esaustivo: molto lavoro c’era da fare ancora (come l’autore esplicitamente ammetteva), e molto da allora è stato fatto, in ricerche importanti e sollecitate da spinte differenti. Ad esempio, The last Generation of the Roman Republic di Eric Gruen (1974) affrontava la stessa crisi studiata da Syme, ma con interesse agli elementi di continuità e alla resilienza delle istituzioni rispetto alle epoche di inquietudine (i turmoils dei tardi anni sessanta e dei primi anni settanta negli Usa). Oggi, invece, nessuna ricerca di storia antica, nemmeno sull’Augusto, fa sentire l’urgenza di una questione viva: come ha osservato Andrea Giardina, «l’impero romano non suscita più passioni attualizzanti», ma genera al più mostre, convegni, o serie televisive.
Non era invece così negli anni trenta, dopo la fine degli imperi aristocratici e la liquidazione dei governi liberali a vantaggio di regimi personali a base militare: il bimillenario augusteo del 1937-’38 fu celebrato in Italia con fervore fascista. Impressionato da quel contesto, Syme non raccontò la vittoria dell’Augusto come l’ineluttabile e «giustificato» esito di un processo storico (la «crisi senza alternative» di Christian Meier), e ancor meno come l’affermazione di un uomo carismatico: largo spazio è per contro dato a tutte le ambiguità del protagonista (un camaleonte, un ipocrita, una sfinge, secondo le successive definizioni datene da Giuliano Imperatore, da Gibbon, da Syme stesso). Una certa comprensione va piuttosto alle ragioni dei suoi avversari: l’apprezzamento di Syme per il punto di vista di Marco Antonio, più che una provocazione, pare una scelta di campo. Ma senza concessioni a utopie «repubblicane»: l’Augusto, un nuovo Cesare più paziente e metodico del primo, dopo essere stato un problema (ossia una delle forze che lacerarono definitivamente la compagine statale) fu anche la soluzione. Riadattando una efficace formulazione di Plutarco (Vita di Cesare, 28,5), forse è vero che «il potere di uno solo era l’unico rimedio ai mali della repubblica, e allora era meglio che quella medicina venisse somministrata dal medico più umano», anche se non dal migliore.
Con La rivoluzione romana Syme scrisse, con spirito aristocratico, la storia della crisi di una aristocrazia: la trasformazione violenta di una società tradizionalista, scossa da un lungo travaglio e finalmente da una rivoluzione. Il termine, così discusso, si giustifica ampiamente per il fatto che arrivò al vertice politico un nuovo ceto dirigente, uscito dalle feroci lotte che avevano decimato o emarginato le famiglie che a lungo avevano tenuto stretto a sé il governo della repubblica. La storia di questi gruppi è stata narrata analiticamente da Syme anni dopo in L’aristocazia augustea (tr. it. Rizzoli, 1993). I nuovi gruppi di potere non sono descritti da Syme con simpatia. Ai valori cui era legato il vecchio ceto erano subentrate altre energie, altri mores: «Quando un partito ha trionfato con la violenza e si è impadronito del controllo dello stato, sarebbe pura follia considerare il nuovo governo come un’accolita di personaggi simpatici e virtuosi». Del resto, il principato segnava la vittoria di quanti avevano rinunciato alla libertà per avere la pace. I giudizi di Syme sembrano suggerire che il libro guardasse a un pubblico di lettori solidali con le diffidenze dell’autore: verso la folla incostante, verso gli eserciti incontrollati, verso gli avidi veterani smobilitati, verso i nuovi politici ambiziosi, verso gli uomini nuovi, spesso moralmente impari alle sfide da fronteggiare, e privi di dignità. La prospettiva è liberale di fondo, ma conservatrice: un chiaro impulso antitirannico la differenzia però nettamente dalle posizioni degli amici di lord Darlington, l’immaginario (ma non troppo) personaggio di The remains of the day di Kazuo Ishiguro (1989).
Pur segnate dall’esperienza degli anni trenta del secolo scorso, le pagine di Syme mostrano a più di sessant’anni di distanza dalla pubblicazione, e oltre cinquanta dalla traduzione italiana, intatta forza. La tesi centrale, che la «rivoluzione romana» portò al potere le classi apolitiche dell’Italia, escluse fino ad allora dal vero potere centrale, è stata discussa, sfumata o contestata. Documenti scoperti successivamente hanno modificato l’interpretazione di taluni aspetti amministrativi. La piena focalizzazione sui dati della tradizione letteraria portò Syme a lasciare ridotto spazio ai temi ideologici, dal consenso alla propaganda, e al «potere delle immagini», al quale Paul Zanker ha dedicato anni fa il suo libro su Augusto (tr. it. Einaudi, 1989, poi Bollati Boringhieri, 2006). La scelta di Syme, nata anche dalla presa di distanza rispetto a certi lavori apologetici verso l’Augusto, ha giovato alla stringatezza del racconto, lucido e disilluso ma impegnato a cogliere le motivazioni profonde, psicologiche più che politico-economiche, degli attori. I fatti sono ripercorsi con sapienza narrativa, entro un magistrale dominio delle fonti antiche. Scarno il ricorso alla bibliografia moderna, presso che nulle le concessioni alla teoria. E netto il rifiuto per le sottigliezze della formalizzazione giuridica, cara alla tradizione germanica del Mommsen: lo stalinismo aveva insegnato che le «costituzioni» possono essere semplici facciate, che poco o nulla dicono sul reale strutturarsi del potere, perché «qualunque sia la forma di un governo, monarchia, repubblica o democrazia, in ogni tempo c’è, dietro, una oligarchia». Parole tornate oggi, per vie impreviste, di sconcertante attualità: e certo, ogni età ha l’oligarchia che si merita.
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