sabato 26 luglio 2014

RONALD SYME, AUGUSTO E LA RIVOLUZIONE ROMANA VISTI DA OXFORD


Carlo FRANCO

"Il Manifesto - Alias", 20 luglio 2014

Molti sto­rici hanno inda­gato la crisi che a Roma tra­volse la repub­blica ari­sto­cra­tica fino all’instaurazione del regime di Augu­sto. E molti hanno rac­con­tato la vita del figlio adot­tivo di Cesare, che da lea­der di una fazione della guerra civile divenne ‘prin­ceps’. Nes­suno in età moderna lo ha fatto però con la forza e l’efficacia di Ronald Syme (1903–1989), sto­rico neo­ze­lan­dese tra­pian­tato a Oxford, in The Roman Revo­lu­tion. Il libro, che esa­mina l’ascesa dell’Augusto con lo sguardo rivolto ai dit­ta­tori dell’Europa nove­cen­te­sca, uscì nel set­tem­bre del 1939. La con­co­mi­tanza con lo scop­pio del con­flitto mon­diale poteva nuo­cere: la guerra avrebbe pre­sto impo­sto una dif­fe­rente agenda all’interpretazione dei governi tota­li­tari. Ma l’opera di Syme man­tenne la pro­pria forza, e pro­prio dal dopo­guerra ha eser­ci­tato un’influenza dure­vole sugli studi. Il libro fu tra­dotto in ita­liano nel 1962, su sug­ge­ri­mento di Arnaldo Momi­gliano. Lo sto­rico, costretto all’esilio in Gran Bre­ta­gna dal 1938, aveva pron­ta­mente recen­sito Syme in una delle sue prime pub­bli­ca­zioni all’estero e firmò la pre­fa­zione all’edizione ita­liana. Altre edi­zioni nelle prin­ci­pali lin­gue euro­pee segui­rono negli anni. Nel frat­tempo, dopo la pub­bli­ca­zione degli altri suoi libri, Syme era ormai «l’imperatore della sto­ria romana» (come lo definì Glenn Bower­sock). Ora oppor­tu­na­mente La rivo­lu­zione romana torna in libre­ria, com­plice il bimil­le­na­rio della morte di Augu­sto (morto nel 14 d.C.), con nuova intro­du­zione a cura di Giu­sto Traina, che ana­lizza effi­ca­ce­mente la rice­zione del libro (tra­du­zione di Man­fredo Man­fredi, «Pic­cola Biblio­teca Einaudi Ns», pp. XXXVIII-650).
Al suc­cesso così pro­lun­gato del lavoro di Syme ha con­tri­buito, oltre al sog­getto, lo stile par­ti­co­la­ris­simo dell’autore. La sto­ria di Roma dal domi­nio di Pom­peo alla fine del prin­ci­pato di Augu­sto è rac­con­tata in pagine ner­vose e taglienti, che con­sa­pe­vol­mente guar­dano a Tacito (lo sto­rico romano a cui l’autore dedicò, anni dopo, un grande stu­dio). Sec­che frasi liqui­dano miti e gran­dezze: le cele­ber­rime Filip­pi­che di Cice­rone appa­iono «un eterno monu­mento di elo­quenza, di ran­core, di tra­vi­sa­mento dei fatti», opera di un poli­tico vit­tima di una «costante illu­sione». La poli­tica è stu­diata nella sua forma più cruda, descritta com’è senza spe­ranza e senza ideali. L’oligarchia romana non era stata in grado di man­te­nere il con­flitto entro i con­fini della lotta per potere, ric­chezza o glo­ria: altri temi erano emersi, con la forza del denaro e delle armi. Cesare, ari­sto­cra­tico fino al midollo, si era appog­giato a sena­tori e cava­lieri, ma aveva pro­mosso anche uomini che veni­vano dalla peri­fe­ria, nuovi alla poli­tica. Come risul­tato, la fazione che sostenne poi il gio­vane erede di Cesare aveva com­preso per­so­naggi «privi di scru­poli, arric­chiti dalla guerra e dalla rivo­lu­zione», e il nuovo ordine seguito alla feroce lotta era di fatto plu­to­cra­tico. Non c’era solo Mece­nate con i suoi pen­sosi letterati.
Al cen­tro del rac­conto, oltre ai sin­goli pro­ta­go­ni­sti, stanno più in gene­rale la lotta di vari ‘par­titi’ e la crisi con­vulsa di una classe diri­gente. I nodi fami­liari e poli­tici che strin­ge­vano tra loro tutti i poli­tici di primo e secondo piano nella Roma della tarda repub­blica sono evo­cati con pre­ci­sione (secondo il metodo «pro­so­po­gra­fico») ma anche con una stra­bi­liante com­pren­sione «dall’interno», che ha fatto pen­sare per ana­lo­gia allo sguardo di Proust (cui Syme dedicò uno scritto, rima­sto ine­dito ma recen­te­mente pub­bli­cato). In que­sta foca­liz­za­zione sulle éli­tes è stato rico­no­sciuto da tempo il senso e il limite del lavoro: dav­vero, come scrisse Momi­gliano, la sto­ria di Roma si poteva ridurre alla lotta tra fazioni, allo stu­dio dei ristretti gruppi che si con­te­sero il potere per decenni, quando venne meno il pre­ca­rio equi­li­brio della repub­blica? Quale fu il ruolo degli eser­citi, delle pro­vin­cie e, su un altro piano, dei moventi eco­no­mici? Temi que­sti non estra­nei a Syme, che alle car­riere di per­so­naggi ‘pro­vin­ciali’ dedicò studi par­ti­co­lari di grande rilievo, ma che restano sullo sfondo nella sua opera mag­giore. La rivo­lu­zione romana non voleva essere un lavoro esau­stivo: molto lavoro c’era da fare ancora (come l’autore espli­ci­ta­mente ammet­teva), e molto da allora è stato fatto, in ricer­che impor­tanti e sol­le­ci­tate da spinte dif­fe­renti. Ad esem­pio, The last Gene­ra­tion of the Roman Repu­blic di Eric Gruen (1974) affron­tava la stessa crisi stu­diata da Syme, ma con inte­resse agli ele­menti di con­ti­nuità e alla resi­lienza delle isti­tu­zioni rispetto alle epo­che di inquie­tu­dine (i tur­moils dei tardi anni ses­santa e dei primi anni set­tanta negli Usa). Oggi, invece, nes­suna ricerca di sto­ria antica, nem­meno sull’Augusto, fa sen­tire l’urgenza di una que­stione viva: come ha osser­vato Andrea Giar­dina, «l’impero romano non suscita più pas­sioni attua­liz­zanti», ma genera al più mostre, con­ve­gni, o serie televisive.
Non era invece così negli anni trenta, dopo la fine degli imperi ari­sto­cra­tici e la liqui­da­zione dei governi libe­rali a van­tag­gio di regimi per­so­nali a base mili­tare: il bimil­le­na­rio augu­steo del 1937-’38 fu cele­brato in Ita­lia con fer­vore fasci­sta. Impres­sio­nato da quel con­te­sto, Syme non rac­contò la vit­to­ria dell’Augusto come l’ineluttabile e «giu­sti­fi­cato» esito di un pro­cesso sto­rico (la «crisi senza alter­na­tive» di Chri­stian Meier), e ancor meno come l’affermazione di un uomo cari­sma­tico: largo spa­zio è per con­tro dato a tutte le ambi­guità del pro­ta­go­ni­sta (un cama­leonte, un ipo­crita, una sfinge, secondo le suc­ces­sive defi­ni­zioni datene da Giu­liano Impe­ra­tore, da Gib­bon, da Syme stesso). Una certa com­pren­sione va piut­to­sto alle ragioni dei suoi avver­sari: l’apprezzamento di Syme per il punto di vista di Marco Anto­nio, più che una pro­vo­ca­zione, pare una scelta di campo. Ma senza con­ces­sioni a uto­pie «repub­bli­cane»: l’Augusto, un nuovo Cesare più paziente e meto­dico del primo, dopo essere stato un pro­blema (ossia una delle forze che lace­ra­rono defi­ni­ti­va­mente la com­pa­gine sta­tale) fu anche la solu­zione. Ria­dat­tando una effi­cace for­mu­la­zione di Plu­tarco (Vita di Cesare, 28,5), forse è vero che «il potere di uno solo era l’unico rime­dio ai mali della repub­blica, e allora era meglio che quella medi­cina venisse som­mi­ni­strata dal medico più umano», anche se non dal migliore.
Con La rivo­lu­zione romana Syme scrisse, con spi­rito ari­sto­cra­tico, la sto­ria della crisi di una ari­sto­cra­zia: la tra­sfor­ma­zione vio­lenta di una società tra­di­zio­na­li­sta, scossa da un lungo tra­va­glio e final­mente da una rivo­lu­zione. Il ter­mine, così discusso, si giu­sti­fica ampia­mente per il fatto che arrivò al ver­tice poli­tico un nuovo ceto diri­gente, uscito dalle feroci lotte che ave­vano deci­mato o emar­gi­nato le fami­glie che a lungo ave­vano tenuto stretto a sé il governo della repub­blica. La sto­ria di que­sti gruppi è stata nar­rata ana­li­ti­ca­mente da Syme anni dopo in L’aristocazia augu­stea (tr. it. Riz­zoli, 1993). I nuovi gruppi di potere non sono descritti da Syme con sim­pa­tia. Ai valori cui era legato il vec­chio ceto erano suben­trate altre ener­gie, altri mores: «Quando un par­tito ha trion­fato con la vio­lenza e si è impa­dro­nito del con­trollo dello stato, sarebbe pura fol­lia con­si­de­rare il nuovo governo come un’accolita di per­so­naggi sim­pa­tici e vir­tuosi». Del resto, il prin­ci­pato segnava la vit­to­ria di quanti ave­vano rinun­ciato alla libertà per avere la pace. I giu­dizi di Syme sem­brano sug­ge­rire che il libro guar­dasse a un pub­blico di let­tori soli­dali con le dif­fi­denze dell’autore: verso la folla inco­stante, verso gli eser­citi incon­trol­lati, verso gli avidi vete­rani smo­bi­li­tati, verso i nuovi poli­tici ambi­ziosi, verso gli uomini nuovi, spesso moral­mente impari alle sfide da fron­teg­giare, e privi di dignità. La pro­spet­tiva è libe­rale di fondo, ma con­ser­va­trice: un chiaro impulso anti­ti­ran­nico la dif­fe­ren­zia però net­ta­mente dalle posi­zioni degli amici di lord Dar­ling­ton, l’immaginario (ma non troppo) per­so­nag­gio di The remains of the day di Kazuo Ishi­guro (1989).
Pur segnate dall’esperienza degli anni trenta del secolo scorso, le pagine di Syme mostrano a più di sessant’anni di distanza dalla pub­bli­ca­zione, e oltre cin­quanta dalla tra­du­zione ita­liana, intatta forza. La tesi cen­trale, che la «rivo­lu­zione romana» portò al potere le classi apo­li­ti­che dell’Italia, escluse fino ad allora dal vero potere cen­trale, è stata discussa, sfu­mata o con­te­stata. Docu­menti sco­perti suc­ces­si­va­mente hanno modi­fi­cato l’interpretazione di taluni aspetti ammi­ni­stra­tivi. La piena foca­liz­za­zione sui dati della tra­di­zione let­te­ra­ria portò Syme a lasciare ridotto spa­zio ai temi ideo­lo­gici, dal con­senso alla pro­pa­ganda, e al «potere delle imma­gini», al quale Paul Zan­ker ha dedi­cato anni fa il suo libro su Augu­sto (tr. it. Einaudi, 1989, poi Bol­lati Borin­ghieri, 2006). La scelta di Syme, nata anche dalla presa di distanza rispetto a certi lavori apo­lo­ge­tici verso l’Augusto, ha gio­vato alla strin­ga­tezza del rac­conto, lucido e disil­luso ma impe­gnato a cogliere le moti­va­zioni pro­fonde, psi­co­lo­gi­che più che politico-economiche, degli attori. I fatti sono riper­corsi con sapienza nar­ra­tiva, entro un magi­strale domi­nio delle fonti anti­che. Scarno il ricorso alla biblio­gra­fia moderna, presso che nulle le con­ces­sioni alla teo­ria. E netto il rifiuto per le sot­ti­gliezze della for­ma­liz­za­zione giu­ri­dica, cara alla tra­di­zione ger­ma­nica del Momm­sen: lo sta­li­ni­smo aveva inse­gnato che le «costi­tu­zioni» pos­sono essere sem­plici fac­ciate, che poco o nulla dicono sul reale strut­tu­rarsi del potere, per­ché «qua­lun­que sia la forma di un governo, monar­chia, repub­blica o demo­cra­zia, in ogni tempo c’è, die­tro, una oli­gar­chia». Parole tor­nate oggi, per vie impre­vi­ste, di scon­cer­tante attua­lità: e certo, ogni età ha l’oligarchia che si merita.

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