Umberto Eco, Il fascino della Venere di Milo
Dalla Lectio magistralis dedicata all’imperfezione nell’arte tenuta da Umberto Eco alla Milanesiana, Teatro Dal Verme di Milano.
Di solito l’imperfezione si definisce rispetto a un genere, un canone, una legge. Guglielmo d’Alvernia, nel suo Tractatus de bono et malo, riteneva turpe uno che avesse tre occhi o un occhio solo, il primo per avere ciò che disdice, il secondo per non avere ciò che si conviene… Quindi è imperfetto qualcosa che ha troppo o troppo poco rispetto alla norma. Che è poi quello che diceva ancora Leopardi nello Zibaldone: «la perfezione di un essere non è altro che l’intera conformità colla sua essenza primigenia».
Benissimo. Ma è imperfetta la Venere di Milo a cui mancano le braccia, eppure le folle vanno al Louvre per ammirarla (…). Talora celebriamo come seducenti creature affette da strabismo di Venere, nasi come quello di Barbra Streisand, Montaigne celebrava il fascino delle zoppe e troviamo in Tanizachi la lode delle gambe ricurve della donna giapponese. Ma il fascino è fenomeno imprendibile e certamente non ha nulla a che vedere né con la perfezione né con la bellezza.
Forse quello che dobbiamo chiarire meglio è il criterio di imperfezione nell’arte. Dove, tanto per cominciare, almeno ai tempi nostri non possiamo più applicare una norma, altrimenti un volto di Picasso sarebbe imperfetto. È che l’opera d’arte pone la norma a se stessa. Quello che cerchiamo nell’opera d’arte non è più la rispondenza a un canone del gusto, ma a un criterio che è interno, dove l’economia e la coerenza formale donano la legge alle proprie parti.
Due sarebbero le forme di imperfezione che si possono imputare a un’opera d’arte. Mancare di alcune parti che il tutto esigerebbe, o averne qualcuna in più. Manca di qualcosa la Venere di Milo, e molti imbecilli hanno cercato di farla ridiventare perfetta; una di queste, con tanto di braccia, ho visto in un museo californiano delle cere con la dicitura «così com’era quando fu ideata da un ignoto scultore».
Ma perché giudichiamo sciocco il tentativo di perfezionare la Venere di Milo? Perché guardandola ci affascina il tentativo di immaginare continuamente il tutto perduto. Il che ci fa pensare al gusto, nato nel Settecento, e che si riassume nel termine estetica delle rovine. Prima si traeva pretesto dalle rovine per riflettere sulla fragilità delle umane sorti, su un passato non più recuperabile. Diderot, nel Salon del1767, dirà ancora che «L’effetto di queste composizioni, buone o cattive che siano, è di lasciarvi in uno stato di dolce melanconia… Siamo soli, orfani di tutta una generazione che non c’è più». Ma lentamente la riflessione moralistica ha lasciato il posto a una contemplazione della rovina in quanto tale, in cui s’inserisce il gusto per l’irregolare. Così l’estetica delle rovine capovolge il concetto di perfezione formale e compiutezza dell’opera d’arte. Ancora Diderot scriverà: «Perché un bello schizzo ci affascina più di un quadro compiuto? È che ha più vita, e meno forme. Quando s’introducono le forme, la vita viene meno».
Nell’estetica delle rovine l’opera può essere goduta non solo malgrado ma grazie al suo deperimento. Ed ecco perché ci piace la Venere di Milo così com’è, più che se avesse quelle sue inutili braccia. Non ci parla solo della sua bellezza formale, che possiamo facilmente ricostruire, ma del mondo perduto da cui proviene.
Tanto va detto vale per le opere d’arte a cui manca qualcosa. Ma quelle che di qualcosa hanno troppo? Ecco il problema della zeppa.
Croce scriveva ne La poesia: «Nella poesia non s’incontrano solo le imperfezioni… ma anche cose impoetiche eppure non correggibili… Sono queste le parti convenzionali o strutturali, che esistono in ogni opera poetica, ora appena visibili, ora visibilissime, specialmente nelle opere di grande estensione e complessità. Un caso molto noto di queste parti convenzionali e strutturali sono quelle giunte e quei riempitivi che i francesi chiamano “chevilles” e gli italiani “zeppe”… Chi ricorda i quattro mirabili versi, coi quali l’Ariosto esprime lo sbigottimento e lo smarrimento di Fiordiligi al presentarsi a lei, soli e taciturni, i due baroni, compagni di Brandimarte nel sostenuto combattimento (“Tosto che entràro, ed ella loro il viso – vide di gaudio in tal vittoria privo, – senz’altro annunzio sa, senz’altro avviso, – che Brandimarte suo non è più vivo!”) potrà avvertire che nel terzo verso “annunzio” e “avviso” sono due vocaboli che dicono lo stesso e forse nessuno dei due con piena proprietà, e che “avviso” è stato scelto per la rima. Ma quel ritmo accelerato, ottenuto con la sequela dei due vocaboli, distaccati e legati a una dalla cesura, è come il battere precipitoso del cuore di Fiordiligi e crea una superiore immagine poetica, e la rima in fine del verso riconduce quel battito all’aspetto e allo sbigottimento innanzi all’apparire dei due, a quel loro “viso” senza luce di gaudio».
Si noti che, se così è, quegli annunzio e avviso non sarebbero affatto zeppe, ma proprio le parole poeticamente giuste che fan dire a Croce che quei quattro versi sono mirabili. Ma la sua ostinazione a voler distinguere struttura da poesia la fa continuare in tal modo: «Ma la giusta accettazione di questi “pezzi strutturali” non deve essere pervertita nell’ingiusta accettazione di essi come poesia: che è l’errore che commettono gli interpreti poco intendenti».
Invece nella sua Estetica Luigi Pareyson, nel rivendicare il carattere di totalità della forma artistica, e quindi rifiutando di selezionare nell’opera sporadici momenti di poesia, come fiori cresciuti tra la sterpaglia della struttura, pensava che struttura e zeppe fossero essenziali all’opera, che andava vista come tutto organico in cui tutto ha una funzione. Così affrontava il problema dei presunti momenti morti facendoli rientrare nel progetto formativo, momento essenziale e non marginale ed estraneo: se «il tutto risulta dalle parti unite a costituire un intero…non potrà esservi particolare trascurabile o minuzia irrilevante; e se nell’interpretazione alcune parti possono risultare meno importanti di altre, questo avviene perché si attua nella forma organizzata una distribuzione di funzioni».
Mi pare che la zeppa possa anche essere un avvio mediocre, utile per ottenere un finale sublime. Una sera, alle tre di notte, sul colle dell’infinito di Recanati, dove stanno scolpite le prime parole di una delle poesie più belle di tutti i tempi, mi sono reso conto che «Sempre caro mi fu quest’ermo colle» è un verso assai banale, che avrebbe potuto essere scritto da qualsiasi poeta minore del romanticismo, e forse di altre epoche e correnti. Che deve essere un colle, in linguaggio “poetico”, se non ermo? Eppure senza quell’inizio scontato la poesia non prenderebbe avvio, e forse occorreva che banale fosse, perché potesse essere avvertito in fine il sentimento panico di quel naufragio, poeticamente memorabile.
Oserei dire, sia pure per amor di tesi, che un verso come «Nel mezzo del cammin di nostra vita» ha la cantilenante dignità di una zeppa. Se non ci fosse stata la Divina Commediadietro non gli avremmo dato molta importanza, forse l’avremmo registrato come un modo di dire (…).
Che cosa dire però per quelle opere, che la critica esigente esilia nella paraletteratura, che nell’intento di accontentare il lettore non prestano attenzione allo stile e talora sono tutte quante una sola zeppa? Prendiamo l’esempio de II conte di Montecristo. Esso è uno dei romanzi più appassionanti che siano mai stati scritti e d’altra parte è uno dei romanzi più mal scritti di tutti i tempi e di tutte le letterature.
Il Montecristo scappa da tutte le parti. Pieno di zeppe, spudorato nel ripetere lo stesso aggettivo a distanza di una riga, incontinente nell’accumulare questi stessi aggettivi, capace di aprire una divagazione sentenziosa senza più riuscire a chiuderla perché la sintassi non tiene, e così procedendo e ansimando per venti righe, è meccanico e goffo nel disegnare i sentimenti: i suoi personaggi o fremono, o impallidiscono, o si asciugano grosse gocce di sudore che colano loro dalla fronte, balbettano con una voce che non ha più nulla di umano, si alzano convulsamente dalla sedia e vi ricadono, con l’autore che premura sempre, ossessivamente, di ripeterci che la sedia su cui son ricaduti era la stessa su cui erano seduti un secondo innanzi.
Perché Dumas facesse così, lo sappiamo bene. Non perché non sapesse scrivere. I Tre Moschettieri è più secco, rapido, magari a scapito della psicologia, ma fila via che è un piacere. Dumas scriveva così per ragioni di denaro, era pagato un tanto a riga e doveva allungare.
Per non dire dell’esigenza, comune a tutto il romanzo d’appendice, per ricuperare i lettori disattenti da puntata a puntata, di ripetere ossessivamente il già noto, così che un personaggio racconta un fatto a pagina cento, ma a pagina centocinque incontra un altro personaggio e gli ripete paro paro la stessa storia – e si veda nei primi tre capitoli quante volte Edmond Dantès racconta a cani e porci che intende sposarsi ed è felice: quattordici anni al castello d’If sono ancora pochi per un piagnone di questa razza.
Anni fa, su invito di Einaudi, avevo accettato di tradurre il Montecristo. L’idea mi affascinava. Prendere un romanzo di cui ammiravo la struttura narrativa e di cui mi orripilava lo stile, e cercare di restituire quella struttura in uno stile più rapido, scattante, ma (ben inteso) senza “riscrivere”, bensì alleggerendo il testo là dove era inutilmente ridondante – e facendo risparmiare (all’editore e al lettore) qualche centinaio di pagine. Dumas era un artigiano pronto a modificare il suo prodotto secondo le esigenze del mercato e se avesse ricevuto un soprassoldo per ogni parola risparmiata non sarebbe stato il primo ad autorizzare tagli ed ellissi?
Un esempio. Il testo originale dice: «Danglars arracha machinalement, et l’une après l’autre, les fleurs d’un magnifique oranger; quand il eut fini avec l’oranger, il s’adressa à un cactus, mais alors le cactus, d’un caractère moins facile que l’oranger, le piqua outrageusement». La traduzione letterale vorrebbe che si dicesse: «Danglars strappò macchinalmente, uno dopo l’altro, i fiori di un magnifico arancio; e quando ebbe finito con l’arancio si rivolse a un cactus, ma allora il cactus, meno facile di carattere dell’arancio, lo punse oltraggiosamente». Ma si potrebbe dire benissimo, senza perdere nulla: «Strappò macchinalmente, uno dopo l’altro, i fiori di un magnifico arancio; quando ebbe finito si rivolse a un cactus, il quale, di carattere più difficile, lo punse oltraggiosamente».
Sono ventinove parole italiane contro le quarantadue francesi. Più del venticinque per cento di risparmio (…). Ho provato, e per circa cento pagine. Poi mi sono arreso perché mi sono chiesto se anche le ampollosità, la sciatteria, le ridondanze, non facessero parte della macchina narrativa. Avremmo amato il Montecristo come lo abbiamo amato se non l’avessimo letto le prime volte nelle sue traduzioni ottocentesche?
È vero, Montecristo è uno dei romanzi più appassionanti che mai siano stati scritti. In un colpo solo (o in una raffica di colpi, in un cannoneggiamento a lunga gittata) riesce a inscatolare nello stesso romanzo tre situazioni archetipe capaci di torcere le viscere anche a un boia, l’innocenza tradita, l’acquisizione, per colpo di fortuna, da parte della vittima perseguitata, di una fortuna immensa che lo pone al di sopra dei comuni mortali, e infine la strategia di una vendetta in cui periscono personaggi che il romanzo si è disperatamente ingegnato a rendere odiosi oltre ogni limite del ragionevole.
Su questa ossatura si dipana la rappresentazione della società francese dei cento giorni e poi della monarchia di Luigi Filippo, coi suoi dandies, i suoi banchieri, i suoi magistrati corrotti, le sue adultere, i suoi contratti di matrimonio, le sue sedute parlamentari, i rapporti internazionali, i complotti di Stato, il telegrafo ottico, le lettere di credito, i calcoli avari e spudorati di interessi composti e dividendi, i tassi di sconto, le valute e i cambi, i pranzi, i balli, i funerali, e su tutto troneggia il tema principe del feuilleton, il Superuomo. Ma diversamente da tutti gli altri artigiani che han tentato questo luogo classico del romanzo popolare, Dumas del superuomo tenta una sconnessa e ansimante psicologia, mostrandocelo diviso tra la vertigine dell’onnipotenza (dovuta al denaro e al sapere) e il terrore del proprio ruolo privilegiato, tormentato dal dubbio e rasserenato dalla coscienza che la sua onnipotenza nasce dalla sofferenza. Per cui, nuovo archetipo che si innerva sugli altri, il conte di Montecristo (potenza dei nomi) è anche un Cristo, dovutamente diabolico, che cala nella tomba del castello d’If, vittima sacrificale dell’umana malvagità, e ne risale a giudicare i vivi e i morti, nel fulgore del tesoro riscoperto dopo secoli, senza mai dimenticare di essere figlio dell’uomo. Si può snob, criticamente avveduti, saper molto di trappole intertestuali, ma si è presi nel gioco, come nel melodramma verdiano. Mélo e Kitsch, per virtù di sregolatezza, rasentano il sublime, e la sregolatezza si ribalta in genio.
Ma potremmo gustare le rivelazioni, le agnizioni a catena attraverso le quali Edmond Dantès si svela ai suoi nemici (e noi si freme, ogni volta, anche se sappiamo già tutto) se non intervenissero, e proprio come artificio letterario, la ridondanza, e l’indugio spasmodico che precede il colpo di scena? Se il Montecristo fosse riassunto, se la condanna, la fuga, la scoperta del tesoro, la riapparizione a Parigi, la vendetta, anzi le vendette a catena, avvenissero tutte nel giro di due o trecento pagine, l’opera avrebbe ancora il suo effetto, riuscirebbe a trascinarci anche là dove, nell’ansia, si saltano le pagine e le descrizioni (si saltano, ma si sa che ci sono, si accelera soggettivamente ma sapendo che il tempo narrativo è oggettivamente dilatato)? Si scopre così che le orribili intemperanze stilistiche sono, sì, “zeppe” ma le zeppe hanno un valore strutturale, come le barre di grafite nei reattori nucleari, rallentano il ritmo per rendere le nostre attese più lancinanti, le nostre previsioni più azzardate. Il romanzo dumasiano è una macchina per produrre agonia, e non conta la qualità dei rantoli, conta il loro tempo lungo.
È una questione di stile, salvo che lo stile narrativo non ha nulla a che vedere con lo stile poetico. Il Montecristo ci dice che, se narrare è un’arte, le regole di quest’arte sono diverse da quelle di altri generi letterari. E che forse si può narrare, e far grande narrativa, senza fare necessariamente quello che la sensibilità moderna chiama opera d’arte.
Ci sono epopee sbilenche, che non pongono capo a un’opera perfetta ma a un fiume lutulento. Può darsi che non soddisfino le regole dell’estetica, ma soddisfano la funzione fabulatrice, che forse non è così direttamente connessa alla funzione estetica. Sconnesse come una serie di miti Bororo, forse riscrivibili come il ciclo Bretone. Ci sono cioè delle opere sgangherate che, proprio perché sgangherate, possono produrre un Mito.
«Sono i cannoni o è il mio cuore che batte?». Ogni volta che si proietta Casablanca, a questo punto il pubblico reagisce con un entusiasmo riservato di solito alle partite di calcio. A volte è sufficiente una sola parola: i fan giubilano ogni volta che Bogey dice “kid”. Spesso gli spettatori citano le battute canoniche prima che gli attori le pronuncino. Secondo i canoni estetici tradizionali se i film di Dreyer, Ejzenstejn o Antonioni sono opere d’arte, Casablanca rappresenta un prodotto estetico molto modesto. È un’accozzaglia di scene sensazionali messe insieme in maniera poco plausibile, i personaggi sono psicologicamente improbabili e gli attori recitano in modo affrettato. Ciononostante, è un grande esempio di discorso cinematografico, ed è diventato un cult movie.
Quali sono i requisiti necessari per trasformare un libro o un film in un oggetto di culto? Curiosamente, un libro può dar vita a un fenomeno di culto anche se è un capolavoro. Sia I tre moschettieri che La Divina Commedia sono annoverati tra i libri culto; e i triviagamessono più diffusi tra i fan di Dante che tra quelli di Dumas. Per trasformare un’opera in un oggetto di culto bisogna essere capaci di smembrarla, smontarla, scardinarla in modo da poter ricordare solo parti di essa, prescindendo dal loro rapporto originario con il tutto. Nel caso di un libro, è possibile smontarlo, per così dire, fisicamente, riducendolo a una serie di stralci. Al contrario, un film deve essere già sgangherato, zoppicante e sconnesso di per sé. Un film compiuto, dato che non possiamo rileggerlo a nostro piacimento, dal punto che preferiamo, come accade per un libro, rimane impresso nella nostra memoria come un tutto, nella forma di un’idea o di un’emozione principale; solo un film sgangherato sopravvive in una serie disgiunta di immagini e picchi visivi. Esso dovrebbe mostrare non un’idea centrale, ma molte. Non dovrebbe rivelare una «filosofia della composizione» coerente, ma dovrebbe vivere sulla, e in virtù della, sua magnifica instabilità.
«Posso raccontarvi una storia?» chiede Ilsa. Poi aggiunge: «Il finale non lo so ancora». Rick dice: «Su, avanti, ditemi. Forse, raccontandola, uscirà il finale». La battuta di Rick è una sorta di epitome di Casablanca. Stando ai ricordi di Ingrid Bergman, il film venne sceneggiato a mano a mano che lo si girava. Fino all’ultimo momento, nemmeno Michael Curtiz sapeva se Ilsa sarebbe partita con Rick o Victor, e i sorrisi misteriosi di Ingrid Bergman sono dovuti al fatto che mentre si girava il film essa non sapeva ancora quale dei due uomini veramente amasse.
Ciò spiega perché, nella storia, lei non scelga il suo destino. È il destino, attraverso gli sceneggiatori imbarazzati, a scegliere lei. (… )
Allora, si è tentati di leggere Casablanca come Eliot aveva riletto Amleto. Il cui fascino egli attribuiva non al fatto che fosse un’opera riuscita, ché anzi la giudicava tra le meno felici di Shakespeare, ma all’imperfezione della sua composizione. Amleto sarebbe l’effetto di una fusione fallita tra varie versioni precedenti della storia, così che la sconcertante ambiguità del personaggio principale è dovuta alla difficoltà dell’autore di mettere insieme diversi temi… Eliot ci dice che il mistero dell’Amleto si chiarisce se, invece di considerare l’intera azione del dramma come cosa dovuta al disegno di Shakespeare, noi riconosceremo nella tragedia una sorta di patchwork mal riuscito di materiali tragici precedenti (…). Così, lungi dall’essere il capolavoro di Shakespeare, il dramma è un insuccesso artistico. «Sia la tecnica che il pensiero sono instabili. E probabilmente i più hanno ritenuto Amleto opera d’arte perché l’hanno trovata interessante, non che l’abbiano trovata interessante perché opera d’arte. È la “Monna Lisa” della letteratura».
In scala minore, a Casablanca è successo lo stesso. Portati a inventare una trama a braccio, gli autori ci hanno messo dentro tutto, attingendo nel repertorio del già collaudato. Quando la scelta del già collaudato è limitata, il risultato è semplicemente kitsch. Ma quando del già collaudato si mette proprio tutto, si ha un’architettura come la Sagrada Familia di Gaudi: stessa vertigine, stessa genialità (…). Due cliché fanno ridere. Cento cliché commuovono. Perché si avverte oscuramente che i cliché stanno parlando tra loro e celebrano una festa di ritrovamento. Come il colmo del dolore incontra la voluttà, e il colmo della perversione rasenta l’energia mistica, il colmo della banalità lascia intravedere un sospetto di Sublime.
(…) Ed ecco che su questa scia si possono giustificare tanti casi di fascino che le estetiche più rigorose non riescono a definire. Si prenda l’elogio che Proust fa (ne Les plaisirs et les jours) della cattiva musica: «Detestate la cattiva musica, non disprezzatela. Dal momento che la si suona e la si canta ben di più, e ben più appassionatamente, di quella buona, ben di più di quella buona si è riempita a poco a poco del sogno e delle lacrime degli uomini… Quante melodie, di nessun pregio agli occhi di un artista, fan parte della schiera dei confidenti scelti dai giovanotti sentimentali e dalle innamorate! … Un certo ritornello insopportabile, che ogni orecchio ben nato e ben educato rifiuta all’istante di ascoltare, ha accolto in sé il tesoro di migliaia di anime, conserva il segreto di migliaia di vite, di cui fu la viva l’ispirazione, la consolazione sempre pronta, sempre aperta sul leggio del pianoforte, la grazia sognante e l’ideale… Uno spartito di mediocri romanze, consumato per aver troppo servito, deve commuoverci come un cimitero o come un villaggio. Che importa che le case non abbiano stile, che le tombe scompaiano sotto le iscrizioni e gli ornamenti di cattivo gusto. Da questa polvere può levarsi in volo, davanti ad una immaginazione abbastanza benevola e rispettosa da mettere a tacere un attimo la sua alterigia estetica, lo stormo delle anime recanti nel becco il sogno ancora verde che faceva loro presentire l’altro mondo, e le induceva a gioire o a piangere in questo». (…)
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