Non dobbiamo temere il tempo e la ripetizione.
Ci sono antidoti: bellezza, arte, musica. E la vita vissuta
Claudio Magris
"Corriere della Sera", 8 gennaio 2016
Il piacere, scriveva Saint-Foix, ci fa dimenticare che esistiamo, mentre il tedio (la noia, l’ ennui , lo spleen ) ce lo fa sentire. Forse il tedio nasce dal narcisismo, dalla viziata o infelice concentrazione su noi stessi, che ci fa pretendere di essere al centro della vita anziché appagarci di essere uno dei suoi innumerevoli atomi, effimeri ma non perciò necessariamente angosciati o abbattuti, e dunque ci condanna alla smaniosa e torpida infelicità.
Sul tedio, questa passione o apatia sciaguratamente universale, ha scritto un affascinante saggio Dulce María Zúñiga, El tedio, el suicidio y la Luna. L’autrice, che si è laureata in Francia e ha conseguito il dottorato in Studi romanzi all’Università Paul Valéry di Montpellier, dirige attualmente la facoltà di Cultura dell’Università di Guadalajara, presso la quale coordina pure la cattedra latino-americana «Julio Cortázar» voluta inizialmente da Carlos Fuentes e Gabriel García Márquez e la cattedra di Humanidades «Primo Levi» ed è inoltre la direttrice del Premio Fil di Letteratura in Lingue Romanze ed è anche traduttrice dal francese dall’italiano e dal portoghese. I suoi studi, che uniscono la precisione storica e filologica alla freschezza dell’esposizione e all’acutezza dell’interpretazione, spaziano da Calvino a Borges, da Todorov a Cortázar o a Fuentes. Con Calvino, da lei così studiato, condivide la grande virtù della leggerezza in cui la profondità si risolve. In un Bestiario della letteratura come quello scritto a suo tempo da Franz Blei, lei sarebbe un uccello dal volo lieve e dalla vista acuta che abbraccia il vicino e il lontano.
La sua prospettiva è quella della letteratura comparata, come rivelano il saggio La culpa es de la Luna e questo libro, che dedica anch’esso un capitolo iniziale al «sentire la luna» e un altro al tedio, all’accidia e alla malinconia, colti attraverso l’opera dei più vari e grandi scrittori — Pascal, Flaubert, Sartre, Moravia, Perec, oltre a una parte finale dedicata ai suicidi nella letteratura.
Fare la storia del tedio significa fare la storia non solo dei suoi grandissimi poeti quali Leopardi o Baudelaire, ma anche della letteratura universale e dell’anima umana, di quei grovigli in cui le grandi domande dell’esistenza s’intrecciano alle ambiguità e alle oscurità della psicologia. Follia lunatica, stanchezza malinconica della vita, suicidi; temi non allegri, ma affrontati dall’autrice senza pathos tragico. C’è addirittura un «elogio del Tedium vitae» , forse memore dell’accostamento leopardiano fra noia e sublime. Perché elogio, le chiedo?
DULCE MARÍA ZÚÑIGA — Precisamente è a Leopardi che pensavo quando ho scritto l’elogio del tedio, perché lui l’ha pensato a lungo e l’ha sofferto profondamente. Per Leopardi il concetto è molto complesso. Dato che l’uomo è infelice per natura, consuma la sua vita cercando piacere e felicità irraggiungibili. Questo sentimento d’insoddisfazione, questa mancanza di piacere porta alla noia che è «figlia della nullità e madre del nulla», scrive il poeta recanatese nello Zibaldone . È il senso di una delusione perpetua verso un piacere inappagato, che provoca l’infelicità e il senso della nullità di tutte le cose. Ma, dall’altra parte, la considera «il più nobile dei sentimenti umani, ciò che ci permette di prendere coscienza dell’essenza della vita, nella misura in cui la noia è «la semplice vita sentita, provata, conosciuta».
Il tedio sembra essere una condizione umana che implica senso di vuoto e di scontentezza della vita. Ma è anche un topos letterario che ha dato grandissime opere nella letteratura mondiale di tutti i tempi, non è vero? Anche lei si è occupato di questi temi.
CLAUDIO MAGRIS — Sì, sono stato affascinato da autori, quali ad esempio Jacobsen o Goncharov, che si sentono fuori dalla vita, vedendola scorrere davanti a loro come un fiume, sulle cui rive siedono senza partecipare al suo fluire, e che si chiedono quando si vive veramente, ma contemporaneamente avvertono la vita come un’aggressione che li minaccia o cercano di sfuggirle, come Svevo, scrivendola e leggendola per evitare di viverla.
Ma tedio e noia sono due cose diverse. Il primo esiste certamente, si confonde con la malinconia e col male di vivere, nasce pure dalla mancanza di un valore e di un fondamento che diano un senso all’esistenza e soprattutto da depressioni anche clinicamente patologiche. Come lei scrive, il tedio è legato all’odio, a quell’odio di sé cui è riservato un girone nell’Inferno di Dante. Invece la noia forse di per sé non esiste: se si fa la coda davanti a uno sportello si può essere irritati perché ciò impedisce di fare altre cose più urgenti, ma non ci si «annoia» necessariamente. Talvolta si potrebbe anzi approfittare di quella pausa nella febbrile corsa dei doveri — una pausa che consente di pensare, ricordare, rivedere nella mente volti e paesaggi amati. Goethe non capiva come si potesse non amare la ripetizione, le stesse cose che ritornano, uguali e sempre diverse come il ripetersi delle stagioni e delle ore con la loro luce e la loro ombra. L’incapacità di amare la ripetizione è forse un segno di aridità. Certo, quando la noia è depressione, male oscuro, morte nell’animo, infelicità, è un’altra cosa.
DULCE MARÍA ZÚÑIGA — Certo, la noia è collegata al tempo. L’uomo annoiato ha una percezione molto alterata del tempo: i minuti, le ore, i giorni sembrano tutti identici e la ripetizione degli istanti incrementa il sentimento del vuoto. Altro che indifferente, l’annoiato è preso dall’inquietudine, soffre e cerca di sfuggire, ma il male è in lui. Ad esempio Oblomov, il personaggio di Goncharov che ha citato prima: non esce dalla sua camera perché sente che è inutile, la noia andrà con lui ovunque sia. Un altro esempio è Jean Des Esseintes, di A rebours de J.K. Huysmans: tenta di sfuggire al Taedium vitae tramite l’arte e la bellezza, ma non ci riesce. Questi due romanzi traducono poeticamente la decadenza del Ottocento europeo.
CLAUDIO MAGRIS — Il Taedium vitae ha pure implicazioni storiche e sociali, caratterizza epoche e classi stanche e blasé . È diffuso soprattutto fra i privilegiati preservati dalla lotta per la sopravvivenza. Chi ha fame, chi porta il peso di un lavoro massacrante o della mancanza di un lavoro, l’immigrato che sbarca in Sicilia o muore in mare difficilmente soffre di noia come i personaggi di Chateaubriand e non ha bisogno di reprimere «l’affettazione del tedio», come esortava Fénelon.
DULCE MARÍA ZÚÑIGA — Dall’antichità la nozione e dunque la sensazione di tedio si collegava con la classe nobile, mai con i lavoratori. Era un privilegio dei sovrani e di coloro che si dedicavano all’ozio creativo: filosofi, poeti e artisti. Quando tutti i bisogni materiali erano soddisfatti, allora si poteva pensare ai bisogni spirituali e allora si sentiva il peso del nulla, dell’insignificanza dell’uomo davanti alla Natura o alla divinità.
CLAUDIO MAGRIS — Forse la risposta al tedio e alla noia è la «persuasione» di Michelstaedter, la capacità di vivere a fondo ogni attimo senza la smania che esso passi presto, senza l’autodistruttivo desiderio di vivere già nel domani — un domani che è sempre domani e dunque non c’è mai, — ossia di essere più vicini alla morte. Lei cita un passo di Gautier in cui si parla del tempo che noi vogliamo uccidere e che invece ci uccide; forse si vince il tedio vivendo invece a fondo il tempo, ogni suo istante...
DULCE MARÍA ZÚÑIGA — Vero, si deve vivere il presente integralmente, ma non si può evitare di sentirsi manchevoli: la felicità e la compiutezza sono sempre aldilà. Schopenhauer ha scritto che la condizione umana è un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia: la sofferenza ci fa sentire vivi, invece la noia è il vuoto, l’assenza di desideri. Una forma di sfuggire a questa condizione è l’arte, la musica, la bellezza... Senza la noia, Leopardi non avrebbe mai scritto I canti, Baudelaire Les fleurs du mal, Flaubert Madame Bovary, Moravia La noia e tanti altri capolavori. Il benessere, la comodità, il comfort e la soddisfazione di se stessi non hanno mai prodotto grande letteratura.
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