lunedì 4 gennaio 2016

Il futuro ha un nuovo futuro. Il ritorno (rivisto) delle distopie


John Stuart Mill fu il primo a utilizzare il termine (in un dibattito politico)
Samuel Butler fu uno dei primi a esplorarlo come genere narrativo
Poi sono venuti Eugenij Zamjatkin, Kurt Vonnegut e George Orwell

Fabio Deotto

"Corriere della Sera - La Lettura", 3 gennaio 2015

Quando nel settembre del 2006 uscì nelle sale cinematografiche I figli degli uomini di Alfonso Cuarón, diversi critici con il pallino della divinazione si profusero in lunghi articoli che decretavano l’impossibilità di resuscitare un filone irrimediabilmente sterile come quello distopico e post-apocalittico. I tempi di James Ballard erano lontani, quelli di George Orwell ancora di più, i detrattori del genere avevano gioco facile a liquidare le distopie di qualità come episodi isolati. E chissà, magari la storia avrebbe dato loro ragione, se solo pochi mesi dopo la commissione del Pulitzer non avesse fatto saltare il tavolo, assegnando il premio per la narrativa a La strada di Cormac McCarthy, un romanzo post-apocalittico firmato da un autore che in quarant’anni di carriera si era tenuto alla larga da qualsivoglia incursione futuristica.
Oggi, nessuno si azzarderebbe a dare per spacciato questo tipo di immaginario, e non tanto perché le librerie vengono regolarmente svuotate da stormi di adolescenti in astinenza da Hunger Games , quanto perché questa frontiera narrativa ha ormai sedotto anche autori che fino a qualche tempo fa la fantascienza non l’avrebbero toccata nemmeno con i guanti da giardiniere.
Se scrittori come Philip K. Dick vedevano in questo genere più una condanna che un trampolino di lancio, oggi la letteratura d’anticipazione (o «prospettica», per dirla con il critico spagnolo Julián Díez) sembra il treno che nessuno può permettersi di perdere. Dave Eggers avrebbe tranquillamente potuto evitare di cimentarsi in una distopia sul lato oscuro dei colossi tecnologici (Il cerchio gli ha procurato critiche piuttosto pesanti); Michael Chabon, ancora fresco di Pulitzer per Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay, non aveva alcun bisogno di esporsi allo scetticismo dei critici più conservatori con Il sindacato dei poliziotti yiddish; e di certo non ne aveva bisogno Howard Jacobson che, dopo aver vinto un Man Booker Prize con L’enigma di Finkler, ha virato su J , una distopia a sfondo razziale.
Come spiegare questa fregola autoriale per la fantascienza distopica? Com’è che, dopo decenni nelle retrovie, il futuro prossimo sembra ormai in grado di sedurre anche il pubblico mainstream e le giurie dei premi letterari più quotati? Prima di rispondere è bene ripassare un po’ di storia, perché la parola «distopia» oggi viene adoperata con eccessiva disinvoltura, spesso a sproposito, da chi spera di battere cassa sfruttando la scia di saghe come Divergent e Maze Runner.
In realtà il termine nasce come contrario di «utopia» e viene utilizzato per la prima volta nel 1868 dal filosofo e deputato britannico John Stuart Mill, per criticare il governo in un dibattito in Parlamento sulla questione irlandese. L’utopia è l’orizzonte perfetto, un modello politico, sociale e religioso in cui ogni ingranaggio si incastra alla perfezione; per contro, la distopia è il luogo in cui i problemi già presenti nella realtà odierna hanno raggiunto un ipotetico estremo. Se il concetto di utopia è funzionale a riflessioni di tipo politico o filosofico, quello di distopia racchiude enormi potenzialità narrative.
Uno dei primi a rendersene conto è Samuel Butler, che nel 1872, nel romanzo Erewhon , descrive una società in cui la malattia è un crimine punito dalla legge, mentre il furto è un sintomo patologico da trattare a livello medico. Perché la distopia cominci a imporsi come genere letterario a sé stante, tuttavia, bisogna aspettare la prima metà del XX secolo, quando lo scrittore russo Evgenij Zamjatin scrive Noi, un romanzo ambientato in una società futura in cui la vita dei cittadini segue rigide regole matematiche e il libero arbitrio è sostanzialmente abolito (una chiara trasfigurazione del totalitarismo comunista). L’intuizione di Zamjatin è così potente che il manoscritto, terminato nel 1921, sarà il primo ad essere bandito dalla censura sovietica. Verrà pubblicato nel 1924, negli Stati Uniti, e la sua influenza sarà tale da ispirare alcune delle opere più significative del secolo scorso, come Piano meccanico di Kurt Vonnegut, Il mondo nuovo di Aldous Huxley e, naturalmente, 1984 di George Orwell.
Se tanti autori mostravano un debole per questo tipo di impostazione narrativa i motivi erano tendenzialmente due: da un lato una cornice distopica consentiva di disancorare la narrazione da riferimenti troppo identificabili, gettando un punto di vista inedito su questioni e tematiche che, se affrontate in maniera realistica, avrebbero polarizzato l’opinione del lettore; dall’altro creava le condizioni per portare a galla, esacerbandole, le problematiche che pregiudicavano il corretto funzionamento della società.
Rispetto a questa tradizione, le distopie letterarie più recenti compiono un ulteriore passo in avanti, sfruttando un contesto più o meno catastrofico per accelerare gli esiti di una crisi reale e duratura, ripulendo così la lavagna da un’equazione socio-economica che in molti hanno rinunciato a risolvere. Basti pensare al nuovo romanzo di Margaret Atwood, The Heart Goes Last, in cui la temperatura della crisi immobiliare raggiunge un livello tale da indurre diverse famiglie a trascorrere volontariamente del tempo in carcere.
Un’altra novità significativa è che in queste opere l’ambientazione futuristica non è quasi mai preponderante, spesso e volentieri viene utilizzata come contraltare per raccontare il presente, o il passato. È il caso di Emily St. John Mandel, che nel suo Stazione Undici (finalista al National Book Award e pubblicato in Italia da Bompiani) racconta una società devastata da una pandemia influenzale che ha spazzato via il solito 99% della popolazione. A differenza del tipico romanzo post-apocalittico, però, una buona metà di Stazione Undici è ambientata negli anni precedenti al collasso. Se in un capitolo il lettore segue le vicende di alcuni personaggi legati al mondo dello show business , in quello successivo li ritrova vent’anni dopo lo scoppio della pandemia, in un mondo dove l’elettricità è scomparsa, ma Shakespeare sopravvive negli spettacoli di una compagnia teatrale itinerante. Questo fare continuamente avanti e indietro consente a Mandel di raccontare un mondo ossessionato dalla fama e dall’immortalità artistica con un approccio del tutto inedito: la componente apocalittica non è più il centro della narrazione, ne è il baricentro; passato e futuro sono amalgamati in un unico intreccio, quasi non fosse possibile inquadrare bene il presente senza utilizzare due diverse posizioni di osservazione.
L’utilizzo duttile che Emily St. John Mandel fa della componente temporale ricorda l’approccio adottato da Jennifer Egan in Il tempo è un bastardo , e dice molto della direzione imboccata dalle nuove distopie letterarie. In queste opere infatti la cornice fantascientifica non è più blindata e totalizzante, è piuttosto una struttura aperta, accessoria, uno strumento narrativo che può essere utilizzato quando serve, senza che il contesto penalizzi le ambizioni e il respiro dell’intera opera.
Nel novembre del 2014, la National Book Foundation ha assegnato la sua ambita Medal for Distinguished Contribution to American Letters a Ursula K. Le Guin. Al momento della premiazione, l’autrice americana ha voluto condividere l’onorificenza con «tutti i colleghi autori di fantasy e fantascienza che negli ultimi cinquant’anni sono rimasti a guardare mentre i premi più belli andavano ai cosiddetti realisti». Per poi aggiungere: «Ci aspettano tempi difficili, e avremo bisogno delle voci di scrittori che riescano a scorgere alternative al nostro attuale modo di vivere, realisti di una realtà più grande».
Quello che ad alcuni può sembrare un convenzionale tributo a una categoria di colleghi, per molti altri è il definitivo coronamento di un processo di emancipazione durato decenni.

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