Il volume di Campbell e Pryce (architetto e fotografo)
spiega funzioni e possibili trasformazioni delle più belle biblioteche
Matteo Motolese
"Il Sole 24 ore - Domenica", 12 aprile 2015
Per scrivere questo articolo sono andato, come molte mattine della mia vita, alla Biblioteca Nazionale di Roma. La prima cosa che vedo, appena arrivo per lasciare la borsa, è un avvertimento stampato su un foglio di carta incollato con lo scotch sul bancone del guardaroba. Lo conosco già senza leggerlo, perché è affisso lì da mesi e viene ripetuto ossessivamente in ogni posto visibile della biblioteca. Avverte che, secondo quanto stabilito dalla legge, la biblioteca non si configura come biblioteca di pubblica lettura e dunque è vietato portare libri propri e fotocopie all'interno. Non è questo però il vero motivo dell'avviso. La novità è che «fino a nuova disposizione, la norma contemplata nel regolamento verrà rigorosamente applicata». Ci si chiede se un avviso del genere, per come è formulato, sarebbe pensabile nella biblioteca nazionale di un altro paese. Ma soprattutto ci si chiede il motivo di tanta ostruzione al lettore, il motivo per il quale non lo si vuole dentro. Perché viene qui a leggere anche libri propri? E allora? È così grave?
Non si tratta di una scelta individuale, ovviamente, ma di un modello. Se si vuole ragionare sul futuro delle biblioteche fisiche nel mondo delle biblioteche digitali è da qui che bisogna partire. Dai modelli. Dalle idee di biblioteca che, nel nostro paese, si sono avute negli ultimi decenni. Luoghi di conservazione prima di tutto, di mantenimento della memoria. Che è una cosa sacrosanta, intendiamoci, ma che mi pare abbia progressivamente fatto marginalizzare un'idea forse altrettanto importante, soprattutto nel cambiamento che stiamo vivendo: l’idea di condivisione, di promozione, di rilancio, di potenziamento. Che è stata delegata principalmente alle biblioteche minori mentre dovrebbe essere affidata alle massime istituzioni del paese preposte alla gestione della cultura scritta. Anche per questo ogni restrizione dei fondi, ogni accorpamento e chiusura – nonostante le continue lamentele degli addetti ai lavori – cade sostanzialmente nel vuoto. Non c’è, nella pubblica opinione, l’idea che la biblioteca sia un moltiplicatore di cultura. E invece un paese che investe su sé stesso, che punta ad aumentare la condivisione di cultura scritta, dovrebbe usare le biblioteche come dei simboli: riconoscibili, visibili, pronti ad accogliere.
Sono queste le riflessioni che suscita la lettura del libro, bellissimo, La Biblioteca. Una storia mondiale di James V. P. Campbell e Will Pryce (Einaudi). Il primo è uno storico dell’architettura; il secondo uno dei più apprezzati fotografi internazionali. Insieme hanno viaggiato nel mondo per descrivere ottantadue biblioteche in ventuno paesi.
Solo dieci anni fa l’idea di un libro del genere sarebbe stata puramente accademica; oggi assume il fascino di un reportage su una pratica a rischio estinzione, che occupa gli umani da millenni: conservare, tramandare e condividere la loro produzione scritta. Potrei dedicare il resto dell’articolo a riassumere il contenuto del libro. Dare conto dei modi nei quali – nel corso dei secoli – si sono trovate soluzioni per combattere nemici dei libri come muffe, animali, ladri: creando correnti d’aria, allevando piccoli predatori d’insetti, incatenando i volumi. Oppure come la trasformazione di banchi e scaffali racconti l’evoluzione delle modalità di lettura. O ancora come – ma sarebbe masochismo – le ultime biblioteche italiane degne di essere fotografate nel pantheon tracciato dal libro siano sei-settecentesche (due gemme romane: Casanatense e Angelica). Mi pare più interessante però spostare l’attenzione sulle biblioteche costruite quando era già chiara la mutazione in atto. Perché infatti uno stato dovrebbe investire enormi somme per costruire edifici che, tra un paio di generazioni, potrebbero perdere di senso?
Sono descritte nell’ultimo capitolo e sono state costruite dal 2001 a oggi in Europa (Paesi Bassi, Germania, Regno Unito), Asia (Giappone, Cina), America del Sud (Messico). Per quanto diverse, sono accomunate dall'idea di un'osmosi profonda tra l’atto singolo della lettura e il ruolo sociale della condivisione. Luoghi ben riconoscibili in cui i linguaggi si mischiano, come la nuova biblioteca multimediale a Cottbus, ex Germania dell’Est, che di notte si illumina come una lanterna. Con spazi pensati non solo per la lettura ma anche per lo scambio di idee. Edifici in cui la conservazione – sempre più complessa: oggi si pubblica più carta di ieri – è unita alla facilità di accesso e alla bellezza degli ambienti. È chiaro infatti che la biblioteca, in futuro, non potrà più essere solo il luogo in cui andare a leggere qualcosa che non si potrebbe trovare altrove. Anche oggetti unici, come i manoscritti, sono spesso ormai consultabili in digitale da casa (in Italia ci sono ottimi esempi in tal senso). Ma dovranno essere sempre di più luoghi di scambio, di lavoro, di accesso ai molti canali attraverso i quali viene veicolata la cultura di gruppi più o meno ampi di persone. Sarebbe bello che questo passasse attraverso forti interventi nel sistema delle nostre biblioteche, a partire da quelle nazionali, per trasformarle sempre più in piazze che attraggano chi è fuori: luoghi in cui valorizzare in modo visibile quell’atto comune e fondamentale in ogni società che non è solo il leggere ma il pensare.
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