lunedì 13 aprile 2015

Hitler e i fisici della zona grigia


Werner Heisenberg, 1925

Nell’analisi di Philip Ball accanto ai Nobel antisemiti Lenard e Stark 
le posizioni ambigue di Planck, Debye e Heisenberg

Vincenzo Barone

"Il Sole 24 ore - Domenica", 12 aprile 2015

Il 7 aprile 1933, il governo nazista, insediatosi da poche settimane (Hitler era diventato Cancelliere del Reich alla fine di gennaio), emanò una legge sui funzionari pubblici, che rimuoveva dall’amministrazione dello Stato – e quindi anche dalle università – le persone di «discendenza non ariana». Fu una data cruciale e drammatica per la scienza tedesca, fino a quel momento la più avanzata al mondo. «Gli ebrei tedeschi – disse Goebbels – possono ringraziare i fuoriusciti come Einstein per il fatto che essi stessi oggi, in modo del tutto legittimo e legale, sono chiamati a renderne conto». Einstein si era allontanato dalla Germania alla fine del 1932, all’indomani della vittoria elettorale nazista, ma dal 1933 in poi fu la puntuale applicazione della nuova legge a svuotare gli istituti e i laboratori universitari dei migliori cervelli della nazione.
Nel volgere di un paio di anni, uno scienziato su cinque fu rimosso dall’incarico o costretto alle dimissioni (nella fisica la frazione fu di uno su quattro): molti premi Nobel persero il posto e lasciarono il paese. Ma che cosa successe a tutti gli altri – agli scienziati che non furono toccati dai provvedimenti antiebraici e rimasero a lavorare in Germania sotto il regime nazista? Con pochissime eccezioni, si verificò quello che Hitler aveva sprezzantemente previsto in un’intervista del 1931: «Credete forse che nel caso di una nostra vittoria la classe media tedesca rifiuterebbe di servirci e di mettere i suoi cervelli a nostra disposizione?».
Tra i fisici «al servizio del Reich» – cui è dedicato un interessante saggio di Philip Ball, appena tradotto da Einaudi - ve ne furono alcuni violentemente antisemiti e attivi sostenitori del nazismo, come Philipp Lenard e Johannes Stark, entrambi premi Nobel, che si distinsero per le loro campagne contro la «fisica giudaica» (rappresentata ai loro occhi soprattutto dalla teoria della relatività). Ma la compagine più folta fu quella di coloro che, senza partecipare direttamente alla vita politica, trovarono forme di accomodamento con il regime, per un mal riposto senso di patriottismo e di fedeltà allo Stato. È su questa «zona grigia tra complicità e resistenza», in cui si mossero personaggi di prima grandezza, che Ball ha scelto di indagare. La sua attenzione si concentra su tre nomi: Max Planck, padre della teoria dei quanti, Werner Heisenberg, uno dei fondatori della meccanica quantistica, Peter Debye, pioniere della fisica molecolare.
Planck e Heisenberg sono figure ben note e ampiamente esplorate. Planck, che all’avvento di Hitler aveva già settantacinque anni, incarnava alla perfezione lo spirito prussiano: rigidamente fedele alle istituzioni, optò per il compromesso e l’inazione, convinto che gli aspetti più odiosi del nazismo si sarebbero attenuati col tempo. Heisenberg, proveniente da una famiglia di tendenze nazionaliste, era l’astro nascente della fisica tedesca, premiato con il Nobel a soli trentuno anni nel 1932. Nonostante non fosse ebreo, fu oggetto nel 1936 di una campagna denigratoria da parte di Lenard, Stark e dei loro accoliti, che lo accusarono sui giornali del partito e delle SS di essere il «fantoccio dello spirito einsteiniano» e un «ebreo bianco». Per risolvere la situazione, Heisenberg mise in campo le proprie influenti relazioni. Sua madre conosceva bene la madre di Himmler, e si recò da lei pregandola di intervenire presso il figlio affinché mettesse a tacere le calunnie. La mossa funzionò: dopo aver chiesto a Heisenberg una risposta scritta alle accuse rivoltegli, Himmler proibì ogni ulteriore attacco nei suoi confronti. Incassata la riabilitazione ufficiale dal capo delle SS, Heisenberg diventò negli anni successivi il più influente scienziato del Reich. Fu sua la responsabilità del progetto dell’uranio, che avrebbe dovuto portare alla realizzazione di un reattore e di un’arma nucleare. L’obiettivo non fu raggiunto, e quando, alla fine della guerra, i fisici tedeschi, rinchiusi nella residenza di Farm Hall in Inghilterra, seppero di essere stati superati dagli americani, che avevano costruito e fatto esplodere la bomba, rimasero increduli, incapaci di riconoscere la propria inferiorità. Nacque allora il mito dell’auto-sabotaggio: gli scienziati avrebbero volontariamente rallentato il proprio lavoro per non mettere nelle mani di Hitler il terribile ordigno. In realtà, come si evince dalle conversazioni a Farm Hall, Heisenberg e colleghi non erano neanche riusciti a calcolare correttamente la massa critica necessaria per fare avvenire la reazione a catena.
Meno conosciuta, e più enigmatica, è la storia di Peter Debye, la cui accurata ricostruzione rappresenta la parte più originale del lavoro di Ball. Olandese di nascita, Debye fu per alcuni anni direttore del prestigioso Istituto Kaiser Wilhelm di Fisica di Berlino (finanziato anche dalla Fondazione Rockefeller), ma nel 1939 abbandonò la Germania e si trasferì negli Stati Uniti, fornendo alle autorità americane informazioni sulle ricerche nucleari tedesche. Questa parabola ha fatto credere a lungo che egli fosse una vittima del regime nazista. Qualche anno fa, tuttavia, sono emersi documenti che attesterebbero la collusione di Debye col nazismo (in particolare, una lettera del 1938 con cui Debye invitava gli ebrei rimasti nella Società tedesca di Fisica a rassegnare le dimissioni). Ne è scoppiato un caso internazionale, e molte istituzioni intitolate a Debye hanno rimosso il suo nome. Ball in realtà ridimensiona la vicenda, mostrando come Debye non fosse un fiancheggiatore del regime, ma un uomo di scienza potente e spregiudicato, “apolitico” nel bene e nel male, interessato solo al successo dei propri progetti scientifici.
Il comportamento della maggior parte degli scienziati che lavorarono nella Germania hitleriana non è interpretabile, a giudizio di Ball, in termini della dicotomia “eroi-malfattori”. Uomini come Planck, Heisenberg e Debye non furono né pro né contro il nazismo: credettero colpevolmente di poter servire la Germania senza al tempo stesso servire Hitler, e di poter separare, in un regime totalitario e criminale, la scienza dalla politica, dimenticando che fare politica – come scrisse una volta Einstein a Max von Laue, l’unico vero antinazista tra i fisici tedeschi rimasti in patria – significa occuparsi delle «faccende umane nel senso più ampio». La loro colpa principale fu l’indifferenza etica: l’incapacità o addirittura il rifiuto – che continuò anche negli anni del dopoguerra – di affrontare la dimensione morale delle proprie azioni. La lezione generale che se ne può trarre – è la conclusione di Ball - è che la “neutralità” della scienza non deve diventare un alibi per il disimpegno: la comunità scientifica «può e deve organizzarsi per massimizzare la sua capacità di agire collettivamente, eticamente e – quando è necessario – politicamente».

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