mercoledì 1 aprile 2015

Biografia della statua «maledetta»


Il progetto di un monumento a Giordano Bruno
 divise per anni l’Italia tra clericali e laici

Corrado Stajano

"Corriere della Sera", 21 marzo 2015

Dopo quattro secoli (e 15 anni) si parla ancora, come se fosse accaduto appena ieri, dell’«abbruciamento dell’eretico impenitente» e della statua che con fatica e coraggio fu posta e dedicata a Giordano Bruno nel luogo del rogo al quale fu condannato dai cardinali dell’Inquisizione. A quell’evento di follia che seguita a suscitare angoscia e incredulità e al monumento in onore del frate, Massimo Bucciantini, professore di Storia della scienza all’Università di Siena, ha dedicato un rigoroso saggio: Campo dei Fiori. Storia di un monumento maledetto (Einaudi). (Quel «maledetto» fu l’aggettivo usato dai clericali; il bronzo ha voluto rappresentare piuttosto la volontà dei posteri di rendere onore alla libertà di pensiero: che almeno la memoria sia segno di giustizia).
Purtroppo la storia non insegna mai nulla, il tragico Novecento ne è un atroce esempio di massa, con milioni di morti bruciati nei lager nazisti, colpevoli soltanto di essere ebrei o di avere un differente credo politico.
Ma il rogo fiammeggiante di Campo dei Fiori, il mostruoso sonno della ragione di quei carnefici assolutisti della fede resta un indimenticato modello per gli spiriti creativi: anche un giovane musicista pisano che vive a Parigi, stimato in tutta Europa, Francesco Filidei, sta lavorando proprio ora a un’Opera sul frate nero che sarà rappresentata al Piccolo Teatro di Milano.
Le ultime parole del frate domenicano ai suoi persecutori — «Forse voi giudici pronunciate la sentenza contro di me con più paura di quanto io ne abbia nell’ascoltarla» — sembra che seguitino a risuonare in quella piazza allegra, tra le bancarelle del mercato, con il pesce madreperlaceo che sembra appena uscito dalle reti, la frutta colorata che sembra invece appena uscita da un dipinto cinquecentesco, in un gran vociare. Mentre il droghiere, il fornaio, il salumiere sull’angolo di via de’ Balestrari, dove fu effettivamente bruciato Giordano Bruno, invitano i turisti nelle loro botteghe: il frate nero dal suo piedistallo di marmo osserva severo. Una spina nel cuore e nelle coscienze, la vita e la morte.
Durò 13 anni — dal 1876 al 1889 — la furibonda lotta tra i fautori e gli oppositori del monumento. Massimo Bucciantini, con cura meticolosa, tra storia e narrazione, ha ricostruito, attraverso la biografia della statua, un agitato pezzetto della vita politica postrisorgimentale. Senza tralasciare nel racconto l’apologetica cattolica che difese l’indifendibile con il negazionismo e la retorica anticlericale che rammenta spesso le reboanti orazioni di certi avvocati di provincia e degli urlanti politici ottocenteschi.
L’idea del monumento a Giordano Bruno non nacque dall’alto, non fu l’espressione di un sottile disegno politico antivaticanesco. A provocar la polemica e la faticata posa del monumento fu il discorrere di un gruppo di studenti universitari che si incontravano all’Osteria del Melone, vicino alla Sapienza, e facevano notte bighellonando nelle vie della città. Adriano Colucci, di Jesi, e Alfredo Comandini, di Faenza, entrambi studenti di giurisprudenza, furono a capo del movimento nascente. Poi presero ognuno, col passare degli anni, la sua strada, professore, deputato al Parlamento, scrittore, poeta, Colucci; deputato anch’egli, direttore di diversi giornali, anche del «Corriere della Sera», dal settembre 1891 al novembre 1892, Comandini. Furono i due giovani a guidare il primo comitato, a raccogliere fondi, a propagandare il progetto che tanto inquietava al di là del Tevere. Ma in effetti la vera mente fu un ebreo francese, Armando Levy, profugo della Comune di Parigi, filosofo, patriota, filantropo, «rivoluzionario romantico», più tardi massone, a innamorarsi del monumento e a farne una ragione di vita.
Il movimento della statua a Giordano Bruno si diffuse con rapidità in Italia e al di là delle Alpi. Non fu la massoneria, come si disse, la sua nutrice, anche se poi molti massoni furono ardenti sostenitori dell’idea. Ma con loro mazziniani, ex garibaldini, repubblicani, radicali, anarchici, liberali che si ribellavano al Sillabo papale, anticlericali senza etichette e, nell’altra fazione, i seguaci del Papa Re, i gesuiti di «Civiltà Cattolica», le figlie di Maria, la destra politica timorosa di un nuovo corso moderato, infuriata con la sinistra, i cattolici più intolleranti al riparo da ogni tentazione di autocritica, del tutto privi dell’arma del dubbio, senza un pizzico di vergogna o, almeno, di rammarico, indignati soltanto dall’oltraggio che quel monumento recava al Papa e al Vaticano.
L’idea dei due giovani studenti — fu poi un loro coetaneo bolognese, Giuseppe Vernazzi, a prendere la guida del movimento — ebbe consensi autorevoli e di gran nome, Victor Hugo, Ernest Renan, Rudolf von Jhering, Antonio Labriola, Andrea Costa, Cesare Lombroso, Giustino Fortunato, ma anche Garibaldi e gli eredi del «Risorgimento tradito».
Il saggio di Bucciantini è anche un trattato di scienza della politica italiana dopo la breccia di Porta Pia. Appaiono ben documentate le meschinità della classe dirigente dell’epoca, non troppo diversa da quella di oggi, le compromissioni, le prudenze, i timori di turbare la curia vaticana e anche il coraggio ribelle, la testardaggine di portare a compimento la statua scolpita da Ettore Ferrari. Due mondi, due Italie inconciliabili.
Il conflitto coinvolse segretari di Stato vaticani, presidenti del Consiglio, sindaci della capitale, Gran maestri della massoneria, cardinali, predicatori, studiosi di Giordano Bruno filosofo, allora quasi del tutto sconosciuto, e cittadini senza nome che parteciparono con fervore a manifestazioni, raccolte di denaro, pubblicazioni di libri e di pamphlet, polemiche pubbliche, cortei che i giornali dell’epoca documentarono.
La svolta liberatoria arrivò con Francesco Crispi presidente del Consiglio che rimosse ogni ostacolo. Vinse con lui la laicità «provvisoria» dello Stato. Fu un gran giorno di festa il 9 giugno 1889. Ne scrisse Émile Zola nel suo Diario .

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