Ecco perché dall’antichità a oggi
la tradizione dei resti di martiri e profeti e la corsa ai “feticci divini”
legittima imperi e governi
Silvia Ronchey
"La Repubblica", 25 aprile 2015
NELLA notte tra il 21 e il 22 febbraio scorso un blitz segreto dell’esercito turco in territorio siriano, a trenta chilometri dalla frontiera, nell’exclave di poche centinaia di metri quadrati presidiata in pieno deserto dalla bandiera rossa col crescente e da un pugno di berretti purpurei dei corpi d’élite, ha prelevato da una moderna turbe ottomana le presunte spoglie di un venerabile quanto leggendario personaggio vissuto otto secoli fa: Suleyman Shah, progenitore del mitico Osman Gazi, il fondatore dell’impero ottomano. L’operazione, denunciata come atto di aggressione da Damasco, ha lasciato un morto sul campo e per il resto terra bruciata ed è stata letta con attenzione dagli osservatori, che ne hanno rilevato e dettagliato le implicazioni politiche, psicologiche, strategiche sullo scacchiere attuale, dominato dall’avanzata del califfato in Siria.
In realtà, per leggere la meticolosa sortita dell’esercito turco sull’Eufrate, a sudovest dell’antica Edessa, occorreva guardare all’ancestrale tradizione della politica delle reliquie. Della particolare forma di legittimazione della memoria ancorata a una sacralità della materia, cui sempre le reliquie alludono, che siano di santi o di eroi, parlano ora due libri molto diversi per metodo, uno di antropologia, l’altro di storia del cristianesimo: Materia sacra di Ugo Fabietti (Cortina, pagg. 306) e Il prepuzio di Cristo di Tonino Ceravolo (Rubbettino, pagg. 177).
In greco le reliquie si dicono leipsana, “resti”: spoglie, quindi, ma anche, alla lettera, «avanzi di un pasto o di un banchetto», o anche ruderi, rovine, vestigia marmoree come di antiche città. Materia inorganica, minerale, calcificata, all’inizio le reliquie più universalmente venerate nelle religioni sono pietre, in cui il sacro ha lasciato un’impronta, come il calco di un fossile su una roccia. Così il Maqam Ibrahim, la pietra con la miracolosa orma di Abramo racchiusa in un tabernacolo alla Mecca accanto alla Ka’ba, o quella prodotta dal viaggio celeste di Maometto nella Cupola della Roccia a Gerusalemme, il Qubbat al-Sakhra, protetta da un reliquiario, o le altre pietre simili conservate nel mondo ottomano e indiano, da Istanbul a Delhi all’Uttar Pradesh. Nel culto cristiano sono le reliquie dette ex rupe presepii, dalla grotta della Natività, o le pietre del sepolcro, o per esempio la lastra “grande come un lavatoio” dove Abramo servì il pasto ai tre angeli che andavano a distruggere Sodoma e Gomorra, o il marmo del pozzo di Samaria dove Cristo disse alla samaritana alcune delle più belle parole del Vangelo di Giovanni, o il granito della colonna della Flagellazione, oggi a Roma, osservata da Bertrandon de la Broquière e dagli altri pellegrini nei loro tour delle città-reliquiario del mondo cristiano, Gerusalemme e Costantinopoli.
Come le reliquie eroiche custodite nei templi e nei santuari dell’antichità pagana, che già conosceva i primi fenomeni di inventiones e traslazioni di reliquie per motivi politici, anche i “ruderi” di una materia investita in un abissale momento dal carisma, segnata dall’impronta del sacro, sono più spesso, nel cristianesimo, intere anatomie, mummie o scheletri di corpi santi; oppure loro parti, organi, visceri: residuo delle pratiche rituali di smembramento della religione egizia, che in età tolemaica inaugurò l’uso del pellegrinaggio nelle città che conservavano interrate le diverse membra di Osiride. O anche residui minimi, stille di umori corporei, lembi di pelle, schegge di ossa, grumi di sangue, denti, unghie, peli, ciocche di capelli: dal dente di latte, reliquia la cui venerazione accomuna Cristo in Francia e Buddha in Sri Lanka, alla più celebre, discussa e significativa delle reliquie falliche, di cui tratta specificamente il libro di Ceravolo: il prepuzio di Cristo. Irriso, dissacrato, fustigato dall’ira di Calvino e dall’ironia degli illuministi, venerato come “vera carne” della circoncisione di Gesù, suo residuo corporeo non assunto, prova “materiale” della sua incarnazione, “frammento rosseggiante” della sua umanità, ma anche campione genetico della divinità, la sua venerazione accorciava le distanze tra cristianesimo e paganesimo ancestrale. Prima di approdare a Calcata nel Cinquecento, trafugato nel sacco di Roma, e sparire di nuovo, veniva custodito nel Sancta Sanctorum del Laterano insieme ad altre “ineffabili reliquie” e una volta l’anno unto e portato in processione dal pontefice e dall’intero collegio cardinalizio: una cerimonia che richiamava le fallofòrie greche e romane, descritte da Plutarco. Ma nel culto della reliquia dell’organo riproduttivo di Cristo l’antico simbolo di fertilità cambiava segno, puntava dritto all’escatologia cristiana, alludeva alla grande e inaudita promessa di questa religione: la resurrezione finale dei corpi. Materia sacra, appunto, come spiega Fabietti, che classifica le valenze e le modalità dell’infusione di potere sacrale alla materia in una rapsodica storia comparata delle religioni che investe con serafica “erranza etnografica” i feticci africani e le culle-cattedrali dei béguinages fiamminghi, i misteri grecoromani e i culti precoloniali andini, la taumaturgia cristiana e il vodu, il calvinismo e l’islam.
A decretare la santità della reliquia può bastare la contiguità col testimone umano, e allora sono brandelli di vesti, lenzuoli, bende. Le fasce di Cristo, la sua «tunica inconsutile, che in antico probabilmente era stata violetta, ma che col tempo si era ingrigita». Il mandylion, con impresso il volto di Cristo, la sindone, con il suo corpo. La pletora degli strumenti della Passione: la lancia che trapassò il costato, la spugna, il legno della Croce, moltiplicato nella geostoria occidentale in un’esplosione di schegge, tanto che Erasmo ironizzò che con tutto quel legno si sarebbe potuta costruire una nave; la corona di spine, a sua volta soggetta a una vertiginosa diaspora che immetterà una pioggia di Sante Spine nell’orbita del potere del re di Francia, dopo che la reliquia, con la conquista crociata di Costantinopoli nel 1204, passò dalla Theotokos del Faro alla Sainte Chapelle; i sacri chiodi portati da Elena a Costantino, leggenda di fondazione dell’impero cristiano, di cui uno contemplabile a Roma nella Wunderkammer di Santa Croce in Gerusalemme. Nell’islam sufico e nelle sue dottrine più esoteriche, che parlano di “luce muhammadica”, la natura interiore di Maometto è identica alla luce divina e il suo corpo ha quindi uno statuto speciale. Nelle reliquie corporee del Profeta i sufi esaltano insieme l’umanità e il luogo della teofania divina. Di qui la venerazione dei capelli e dei peli della barba di Maometto, meta di pellegrinaggio a Shrinagar nel Kashmir. E poi del suo sangue, della sua saliva, degli oggetti che entravano in contatto col suo corpo durante le abluzioni, capi di vestiario, sandali. Sono reliquie da contatto, feticci, dove la nozione di “sostituto” intuita da Freud sottolinea l’aspetto libidico di questi oggetti di venerazione non solo nelle religioni primitive ma anche in quelle storiche, fino alla reliquie laiche prodotte dalle moderne ideologie politiche, dai residui corporei di Garibaldi alla salma imbalsamata di Lenin.
In oriente come in occidente, la storia stratificata delle reliquie, scrive Ceravolo, traccia l’atteggiamento dell’uomo verso il corpo, il sacro, il potere e la morte. Si potrebbe scrivere: verso il corpo e cioè verso la morte; verso il sacro e cioè verso il potere. Le reliquie, i “formicai di ossa” irrisi da Calvino, erano capitale simbolico, marchio di identità non solo confessionale, ammesso che la religione sia mai oggetto e non pretesto di identità. Venivano scambiate fra gli stati per sancire patti strategici o economici. In caso di guerra erano il trofeo più ambito. La difesa di una reliquia poteva conferire legittimità a un impero. Attorno a una reliquia si poteva fondare l’egemonia di una città, come nel caso delle ossa dei Magi conservate al centro della cattedrale di Colonia. Per qualunque soggetto, singolo o comunità, una reliquia era affermazione di esistenza e garanzia di sopravvivenza alla morte, individuale o collettiva. Anche nell’islam, come nel paganesimo o nel buddhismo, le reliquie si usavano nella fondazione di edifici sacri e pubblici, si trasmettevano nelle generazioni, si diffondevano con l’avanzata storica e geografica di quella civiltà, si moltiplicavano, rivestivano una funzione civilizzatrice di legittimazione del potere temporale.
I resti del leggendario antenato di Osman traslati dall’esercito turco nel febbraio scorso simboleggiavano contemporaneamente l’identità etnica ottomana; la tradizione imperiale dei sultani, detentori del titolo califfale fino al 1924; la passata giurisdizione turca sulla Siria; il nazionalismo kemalista, che indusse Ataturk a rivendicarla e ottenerla dalla Francia nel trattato di Ankara del 1921, per mantenerla anche dopo l’indipendenza della Siria nel ‘46. Se quella fatta oggi coi tank blindati e le unità speciali come nel medioevo a fil di spada è la tipica traslazione di una reliquia, il suo significato ci fa leggere, sotto l’attualità, il reticolo sotterraneo di simboli e cicatrici che segnano la storia delle convivenze o collisioni o progressive ibridazioni tra popoli: in una parola, il passato.
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