lunedì 13 aprile 2015

Antropofobia



Ossessionati da identità e radici, temiamo (e ignoriamo) 
la varietà di società e culture del pianeta
Per questo Finkielkraut sbaglia

Adriano Favole

"Corriere della Sera - La Lettura", 12 aprile 2015


Nel suo libro L’identità infelice (Guanda), Alain Finkielkraut la chiama «oicofobia», ovvero «l’odio per la casa natale». Riferendosi alla sua Francia, il filosofo sostiene che vi è una diffusa tendenza a valorizzare le differenze culturali degli stranieri, mentre il patrimonio autoctono sarebbe oggetto di disinteresse e spesso di una radicale critica. È una Francia «in cui l’origine non ha diritto di cittadinanza se non a condizione di essere esotica e in cui una sola identità è tacciata d’irrealtà: l’identità nazionale». L’identità è infelice perché i francesi, e più in generale gli europei, rifiutano di celebrare e difendere i simboli della loro cultura, quella stessa cultura occidentale contro cui i terroristi che si richiamano all’islam scagliano l’odio omicida. «Perché la Francia è a immagine dell’Europa e l’Europa ha smesso di credere nella sua vocazione (passata, presente o futura) di guida dell’umanità nella realizzazione della sua essenza», dice Finkielkraut.
La critica all’«oicofobia» è molto diffusa di questi tempi, anche in Italia. Si rivolge in genere contro chi, come Francesco Remotti e Maurizio Bettini, ha reso sospetti termini come «identità» e «radici». L’uso di «oicofobia» è originale e arguto, ma in fondo non è altro che la riproposizione della vecchia querelle contro i «relativisti».
Una fenomenologia dell’oicofobico italiano rimanda, per limitarci ad alcuni esempi, a chi mette in discussione la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche; a chi, nonostante i terroristi e la jihad globale (o forse proprio per questo), ritiene comunque importante non dimenticare le pagine buie del colonialismo occidentale. Temo di essere classificato tra questi se, quando i media diffondono orrende immagini di distruzione del patrimonio artistico da parte dell’Isis, non posso fare a meno di pensare a quando, un paio di secoli prima, i missionari cristiani bruciavano gli idola pagani delle società polinesiane in cui mi è capitato di fare ricerca (statue lignee e reliquie degli antenati), trasformando i marae (i «templi» sacri) in recinti per i maiali e per i polli. L’oicofobico italiano è accusato di difendere l’operazione Mare nostrum per salvare le vite di chi tenta di attraversare il Mediterraneo, superando il filo spinato dell’indifferenza verso la fame, la guerra e la morte, anche se si tratta di uomini e donne in prevalenza islamici, e di non scandalizzarsi abbastanza davanti ai massacri dei cristiani in Kenya.
Davvero è un «pericolo» l’oicofobia? Ma soprattutto: è così diffusa come si vuol far credere? A me pare che il saggio di Finkielkraut colga un diffuso «bersaglio» più che un pericolo.
Molto più diffuso e pericoloso, a mio modo di vedere, è un atteggiamento che si potrebbe definire «antropofobia». L’antropofobia è la paura, lo sgomento e la difficoltà di riconoscere e valorizzare la diversità culturale prodotta dall’umanità, distinguendo la sua importanza dagli usi strumentali di tipo politico, militare e persino terroristico che spesso se ne fanno. È la paura di riconoscere l’umanità nella variabilità delle sue forme (interne ed esterne a una società) e nel suo divenire creativo, attraverso l’inevitabile fusione di orizzonti. È, ancora, l’idea che la condivisione di valori e obiettivi debba comportare il cristallizzarsi di un’identità monolitica. L’antropofobia si manifesta oggi in una risoluta e testarda negazione dei risultati delle ricerche scientifiche compiute da discipline come l’antropologia culturale e l’antropologia fisica (e più in generale nelle humanities ), ridotte dagli antropofobici ad arene ideologiche della post-sinistra intellettuale.
Lasciando da parte il crescente neo-razzismo quale forma paradigmatica di antropofobia, vorrei porre l’attenzione su un’istituzione come la scuola, che il filosofo francese accusa di «oicofobia» in quanto trascurerebbe lo studio degli autori classici della tradizione occidentale. Quanto insegniamo nella scuola (e nell’università) ai ragazzi e ai giovani della variabilità culturale dell’essere umano? Uno studente all’ultimo anno di liceo non conosce neppure i nomi delle più diffuse etnie africane: non sa chi sono hutu e tutsi e tanto meno nuer e dinka. Della Cina conosce probabilmente l’inquinamento e lo straordinario progresso economico degli ultimi decenni, ma ne ignora del tutto la storia, così come i nomi delle lingue minoritarie. Forse i cherokee ricordano al nostro studente un’automobile e i wampum un paio di jeans, ma difficilmente ha potuto acquisire qualche elemento di conoscenza delle società native americane. D’altra parte non conosce neppure le principali tipologie di famiglia, discendenza e alleanza matrimoniale presenti nelle società umane.
Per non parlare delle religioni, che pure sono indiziate di essere un «problema» molto rilevante del nostro tempo. L’insegnamento relativo a riti, credenze e precetti dell’islam e dell’ebraismo, dell’induismo e del buddhismo, tralasciando le «primitive» religioni native dell’Amazzonia o dell’Oceania, sono lasciati al buon cuore di qualche insegnante di religione cattolica o a qualche contestato laboratorio didattico pomeridiano. Non c’è traccia di tematiche antropologiche (salvo un cenno all’insegnamento della lingua italiana per gli stranieri) nel recente disegno di legge sulla «buona scuola» presentato dal governo, eppure ogni giorno la «questione interculturale» ci viene presentata come uno dei problemi maggiori del nostro tempo.
L’antropofobia delle istituzioni formative porta con sé la mancanza di un lessico minimo della comunicazione interculturale e diffusi equivoci. Termini come «etnia» e «cultura» sono costantemente utilizzati nel linguaggio mediatico come se si riferissero a realtà ontologiche primordiali e persistenti, mentre gli scienziati sociali non cessano di documentare il loro carattere storicamente costruito. Insigni editorialisti utilizzano i termini «antropologia» e «antropologico» come se si riferissero ad aspetti profondi e immutabili dell’essere umano, mentre l’antropologia (sia sul versante biologico sia su quello culturale) mette costantemente in luce la variabilità e la trasformazione delle forme.
Gli antropofobici detestano in genere la complessità dell’essere umano e cercano comode scorciatoie. L’ homo oeconomicus, l’individuo che ovunque cerca di massimizzare i profitti, è una di queste, così come il diffuso ricorso a determinismi neurologici e biologici — proprio in questi giorni è uscito in Italia Una scomoda eredità di Nicholas Wade (Codice Edizioni), un libro che ripropone un paradigma razziologico, mentre le comunità degli antropologi fisici e culturali hanno da poco ribadito con forza l’inconsistenza scientifica del concetto di razza. In realtà, essere «antropofili», apprezzare cioè l’umanità nella sua varietà e fare di essa il punto di partenza per la costruzione di percorsi condivisi, non vuol dire essere oicofobici. L’incapacità di accogliere l’humanitas nella sua interna complessità impedisce infatti di guardare con affetto e pietas alle peculiarità della cultura da cui si proviene. Anche perché, quando si studiano le radici, si finisce per vedere che spesso esse sono ben radicate altrove, anche se nutrono la nostra pianta. I tronchi degli alberi con cui si fabbricano le case, afferma un detto polinesiano, sono gli stessi con cui si producono le piroghe per navigare in alto mare.

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