Dai maestri alle voci nuove.
Perché i versi sono più liberi rispetto alle “narrazioni”
Alberto Asor Rosa, Licenze poetiche, "La Repubblica" 29 settembre 2012
Nel nostro paese c’è una produzione sempre più vasta che rivela una capacità di invenzione profonda superiore alla prosa
Nel nostro paese c’è una produzione sempre più vasta che rivela una capacità di invenzione profonda superiore alla prosa
Per chi scrive oggi un poeta? Ovvero, più esattamente: perché e come si scrive poesia oggi? La domanda è meno banale di quanto appaia a prima vista. Il dato di fatto è che, oggi, decine di migliaia di italiani scrivono poesie. La più reclusa e appartata delle attività letterarie, almeno stando ai parametri correnti, rischia di diventare la più sotterranea, capillare e diffusa. Si direbbe che, rispetto al chiacchiericcio universale, che dilaga dalle televisioni ai giornali e invade anche il mondo del web, ci sia una fetta non irrilevante di acculturati (non è necessario, del resto, esserlo troppo per aspirare ad esprimersi poeticamente), che vira in direzione decisamente opposta, e cioè verso il linguaggio più esclusivo e personale che sia stato finora inventato dall’uomo. E siccome il peso delle scuole e delle tradizioni si è fatto nel frattempo pressoché inesistente, la caratterizzazione stilistico-semantica delle singole individualità è invece diventata molto più spinta: ognuno dei poeti contemporanei, scrive come vuole e di che vuole, è insomma scuola a se stesso.
L’indicatore massimo è quello espressivo-personale: si scrive, e si scrive a quel modo, perché una pulsione profonda spinge a farlo. L’obiettivo comunicativo ovviamente sopravvive; ma che esso sia condizionante per fare o non fare, non è decisivo. Il poeta, qualsiasi poeta, scriverebbe oggi soprattutto perché non ne può fare a meno: il resto si vedrà (in taluni casi, poco o mai; ma ai soggetti coinvolti sembra, per davvero, interessare molto meno).
L’indicatore massimo è quello espressivo-personale: si scrive, e si scrive a quel modo, perché una pulsione profonda spinge a farlo. L’obiettivo comunicativo ovviamente sopravvive; ma che esso sia condizionante per fare o non fare, non è decisivo. Il poeta, qualsiasi poeta, scriverebbe oggi soprattutto perché non ne può fare a meno: il resto si vedrà (in taluni casi, poco o mai; ma ai soggetti coinvolti sembra, per davvero, interessare molto meno).
Non mi risulta che per la narrativa accadano cose analoghe. È ovvio che il narratore non possa non aspirare a un alto livello di comunicabilità (può darsi, anzi è probabile, che alcune eccezioni esistano; ma il quadro, in generale, esaspera la ricerca della comunicazione a tutti i costi). Le cosiddette “narrazioni”, che non a caso anche il linguaggio politico ha adottato ed enfatizzato, scivolano generalmente più in superficie (del resto, se il termine ha potuto essere adottato ragionevolmente in politica, non potrebbe essere altrimenti). Partendo da queste considerazioni, si potrebbe arrivare a stabilire che la poesia guarda di più oggi al mondo del possibile e dell’eventuale, qualche volta dell’auspicabile, che non a quello del reale e del documentabile, e che, al tempo stesso, il primo è di gran lunga preferito al secondo (è sempre stato così? sì, ma oggi la divaricazione è aumentata).
Questo è vero sia in alto che in basso? Per i poeti più conosciuti come per quelli meno noti? Io sarei tentato di rispondere di sì. La produzione poetica, autorevolmente edita e autorevolmente riconosciuta, è in Italia vasta e poliforme.
Ci sono, alle spalle di ciò che ogni giorno fermenta, autori dal timbro inconfondibile e alto: Valerio Magrelli, Patrizia Cavalli, Patrizia Valduga (il cui recente Libro delle laudi, Einaudi, conferma e continua la sontuosa ricchezza delle Cento quartine, 1997), Gianni d’Elia, Milo De Angelis; L’Infinita fine (Einaudi) di Cesare Viviani esprime a un livello che si può definire eccezionale l’eterna carica pampsichistica della vicenda umana; con i suoi ultimi libri, Affari di cuore (Einaudi) eNatura morta (Aragno), contraddistinti da una specifica, inconfondibile sonorità musicale, Paolo Ruffilli s’inserisce autorevolmente nel “gruppo di testa” della poesia italiana contemporanea; e ne La Trappola (Einaudi), recentemente apparso, Franco Marcoaldi conferma, con una tonalità più malinconica, le doti di un discorso tanto apparentemente svagato quanto in realtà conciso, preciso e profondo.
Ma, – è questa la mia tesi, -non c’è solo il “gruppo di testa”. C’è una moltitudine di voci, che una ricognizione più attenta della mia dovrebbe a questo punto investigare e catalogare, tutte contraddistinte da questa pervicace volontà di non abbandonare, se l’espressione non è troppo rétro, il colloquio di un (qualsiasi) se stesso con l’“essere” (anche se l’“essere”, o qualsivoglia cosa s’intenda con questo termine, è di sicuro meno chiaro e molto, molto più oscillante, di ieri).
Vediamo qualche esempio (ahimè, troppo sommario). Innanzi tutto, le eccezioni che confermano la regola: e l’eccezione, in alcuni casi, non è il futuro, ma il perdurare di un rapporto profondo fra passato e presente.
Non vorrei far trasparire qui troppo la mia simpatia per gli ultraottantenni, ma mi è accaduto recentemente di leggere un libretto di poesie di stupefacente bellezza, I Niül di Franco Loi (edito dalla benemerita Interlinea di Novara), che ribadisce quel che certo già sapevamo, ma che forse all’altezza del 2012 avevamo tutti un po’ troppo dimenticato, e cioè che il dialetto come lingua poetica vale (continua a valere) in Italia la lingua nazionale (ma in alcuni casi, come questo, anche di più).
E poi quei tentativi che emergono ora, come L’incanto della specie (La Camera Verde) della romana Fiammetta Cirilli, che usa con estrema abilità la sua leggerissima prosa poetica per dire ciò che accade oggi alla condizione giovanile. O come Il ritmo e il respiro di Carlo Masini (Passigli), che, con concisione quasi epigrammatica, definisce aspetti irrisolti della condizione umana contemporanea. O come Pozzanghere di Filippo Strumia (Einaudi), esordiente, il quale utilizza con inaspettata sapienza la sua esperienza di psicanalista junghiano, per rappresentare un mondo frantumato e animalizzato.
Ma un’occasione preziosa al mio disegno interpretativo la fornisce la comparsa del più recente volume, il sesto, dei Nuovi poeti italiani, editi nel corso degli ultimi anni da Einaudi nella “collana bianca”, tutto dedicato questa volta a dodici poeti di sesso femminile (Alida Airaghi, Daniela Attanasio, Antonella Bukovaz, Maria Grazia Calandrane, Chandra Livia Candiani, Gabriela Fantato, Giovanna Frene, Isabella Leardini, Laura Liberale, Franca Mancinelli, Laura Pugno, Rossella Tempesta) e, a cura di un altro poeta donna, Giovanna Rosadini (autore in proprio a sua volta di una raccolta d’inusitata intensità, Unità di risveglio, Einaudi). Non c’è spazio per una circostanziata lettura degli autori e dei testi del libro, e me ne rammarico.
Ma due cose in generale vorrei dire sull’immagine collettiva e ragionata dell’impresa. La prima è che la raccolta fornisce per la prima volta un’organica rappresentazione «di genere» al femminile della poesia italiana contemporanea (con qualche spiacevole ma comprensibile esclusione). Quel che si può dire da questo punto di vista è che la linea femminile della nostra poesia (archetipiche Rosselli, Merini, Cavalli e Valduga) ha una forza e una autenticità che penetrano nel profondo di quella specifica condizione e ne spiegano e giustificano questo sistematico ricorso alla «voce di pochi» che non rinunciano tuttavia a diventare molti.
La seconda è che le identità degli autori (così come si ricavano, oltre che, ovviamente, in primo luogo dai testi medesimi, anche dalle nitidissime e precisissime note introduttive) svariano sull’intero campo delle funzioni intellettuali e dei destini esistenziali, oltre che del panorama geografico italiano. La poesia di donne, ancor più significativamente di quella degli uomini, non è più una poesia di eletti e di casta (si pensi in passato all’ermetismo), ma copre assai liberamente l’intero arco delle potenzialità umane reali. Non è poco per un’esperienza (da molti presunta) di nicchia.
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