A Mantova, lettere, voci e immagini per raccontare il celebre poeta,
Francesco Erbani, "la Repubblica", 7 settembre 2012
È un luogo appartato del festival, alle spalle di piazza delle Erbe. Una volta varcato l' ingresso è come se si spalancasse uno dei boschi raccontati da Ludovico Ariosto, fondale selvatico di epici duelli. Al poeta ferrarese dell' Orlando Furioso è intitolato questo spazio nella sacrestia dell' Archivio di Stato, dove si raccolgono sue lettere ai signori Gonzaga, si proiettano video e si ascoltano le voci che immergono nelle storie misteriose e fantastiche dell' esercito di re Carlo assediato dai saraceni di Agramante, nelle vicende dei cavalieri cristiani e di Orlando e Angelica, di Bradamante e Ruggiero e poi di Rodomonte, Ferraù, Dardinello, Gradasso...È il segno di quanto il festival macini letteratura senza tempo. Oltre la contemporaneità, anche un repertorio di storie che non smettono di colpire la facoltà dell' immaginazione.
Ad Ariosto, che cinquecento anni fa, nel 1512, inviava una lettera a Federico Gonzaga in cui si scusava di non avergli potuto ancora mandare una copia del suo poema, il festival dedica un intero percorso, una specie di sosta nell' incanto, che dai documenti si snoda fino alle letture che stasera e domani, fra i Giganti affrescati di Palazzo Te, impegnano dal pomeriggio a notte fonda scrittori, attori, studiosi di diverse competenze. Qualcuno leggerà versi. Qualcun altro reinventerà. Altri ancora racconteranno il loro Furioso (qui accanto compaiono alcune di queste narrazioni). Le lettere esposte all' Archivio documentano parte della storia editoriale del poema ariostesco, una delle più intricate dell' epoca. Prima ancora che esca, del Furioso circolano già pezzi. Isabella Gonzaga li ha ascoltati a Ferrara. E a Federico Gonzaga, nel luglio del 1512, Ariosto scrive di aver saputo che lui vorrebbe leggerlo per intero. Ma l' opera è imperfetta, gli dice, tutta chiosata («che fora impossibile che alteri che io lo leggessi»). Nel 1516 esce la prima edizione, che diventa immediatamente un successo fuori dell' ordinario. L' opera è quasi a sé stante, rispetto a quella che oggi leggiamo, tessuta in una lingua molto ferrarese. Ma nonostante questo fioccano le stampe pirata, le chiameremmo oggi. E ancora nel 1532, quando esce l' edizione definitiva del Furioso, in un idioma molto più fiorentino, Ariosto si raccomanda che le sue opere teatrali non finiscano nelle mani di stampatori senza scrupoli. La sacrestia dell' Archivio è aperta e frequentata a tutte le ore. Le lettere sono raccolte in bacheche, mentre su uno schermo si proiettano le immagini di lavori teatrali che in qualche modo hanno a che fare con Ariosto, nati raccogliendoi tanti fili che il poeta distribuisce nella sua opera. Alcuni di questi lavori sono dedicati al personaggio di Alcina, la maga, l' incantatrice che perde le sue facoltà quando s' innamora. Un altro, a cura di ricercatori dell'Iuav (l' Istituto universitario di Architettura di Venezia), documenta i paesaggi ariosteschi, con l' aiuto di Ermanno Cavazzoni, Franco Farinelli e Monica Centanni. Ma il pezzo forte è l' Orlando Furioso con la regia di Luca Ronconi, che esordì a Spoleto nel 1969 e poi andò in tv, in cinque puntate, nel 1975, in un' era televisiva che sembra inimmaginabile nella nostra. Uno spettacolo-monstre, si disse allora, fra meraviglia e scandalo, cui collaborò Edoardo Sanguineti, che alcuni ragazzi guardano nello schermo di un computer, prendendo appunti. Mirabolanti costumi, scene fantastiche, girate nel palazzo Farnese di Caprarola, nel teatro Farnese e nel palazzo della Pilotta a Parma, nelle terme di Caracalla e in santa Maria in Cosmedin. Il viaggio ariostesco prosegue nel repertorio pittorico generato dalle favole del Furioso (gli affreschi nella volta di Castel Masegna, vicino a Sondrio, e quelli di Palazzo Besta, a Teglio), e giunge a un' altra delle celebri interpretazioni del poema di Orlando: la lettura radiofonica curata da Italo Calvino. Nel 1968 lo scrittore, che della fantasia e della costruzione narrativa di Ariosto fu grande ammiratore, confezionò 25 puntate in cui attori (Albertazzi, Foà, Lupo, Sbragia e Bonagura) recitavano e raccontavano. Le trasmissioni si riascoltano integralmente, mentre tornano alla memoria le storie di Bradamante e dei paladini che Calvino raccoglie nel Cavaliere inesistente o la pazzia di Orlando e Astolfo sulla luna che compaiono in un mazzo di tarocchi nel Castello dei destini incrociati. «L' Orlando furioso è un poema che si rifiuta di cominciare e si rifiuta di finire», diceva Calvino.
Ad Ariosto, che cinquecento anni fa, nel 1512, inviava una lettera a Federico Gonzaga in cui si scusava di non avergli potuto ancora mandare una copia del suo poema, il festival dedica un intero percorso, una specie di sosta nell' incanto, che dai documenti si snoda fino alle letture che stasera e domani, fra i Giganti affrescati di Palazzo Te, impegnano dal pomeriggio a notte fonda scrittori, attori, studiosi di diverse competenze. Qualcuno leggerà versi. Qualcun altro reinventerà. Altri ancora racconteranno il loro Furioso (qui accanto compaiono alcune di queste narrazioni). Le lettere esposte all' Archivio documentano parte della storia editoriale del poema ariostesco, una delle più intricate dell' epoca. Prima ancora che esca, del Furioso circolano già pezzi. Isabella Gonzaga li ha ascoltati a Ferrara. E a Federico Gonzaga, nel luglio del 1512, Ariosto scrive di aver saputo che lui vorrebbe leggerlo per intero. Ma l' opera è imperfetta, gli dice, tutta chiosata («che fora impossibile che alteri che io lo leggessi»). Nel 1516 esce la prima edizione, che diventa immediatamente un successo fuori dell' ordinario. L' opera è quasi a sé stante, rispetto a quella che oggi leggiamo, tessuta in una lingua molto ferrarese. Ma nonostante questo fioccano le stampe pirata, le chiameremmo oggi. E ancora nel 1532, quando esce l' edizione definitiva del Furioso, in un idioma molto più fiorentino, Ariosto si raccomanda che le sue opere teatrali non finiscano nelle mani di stampatori senza scrupoli. La sacrestia dell' Archivio è aperta e frequentata a tutte le ore. Le lettere sono raccolte in bacheche, mentre su uno schermo si proiettano le immagini di lavori teatrali che in qualche modo hanno a che fare con Ariosto, nati raccogliendoi tanti fili che il poeta distribuisce nella sua opera. Alcuni di questi lavori sono dedicati al personaggio di Alcina, la maga, l' incantatrice che perde le sue facoltà quando s' innamora. Un altro, a cura di ricercatori dell'Iuav (l' Istituto universitario di Architettura di Venezia), documenta i paesaggi ariosteschi, con l' aiuto di Ermanno Cavazzoni, Franco Farinelli e Monica Centanni. Ma il pezzo forte è l' Orlando Furioso con la regia di Luca Ronconi, che esordì a Spoleto nel 1969 e poi andò in tv, in cinque puntate, nel 1975, in un' era televisiva che sembra inimmaginabile nella nostra. Uno spettacolo-monstre, si disse allora, fra meraviglia e scandalo, cui collaborò Edoardo Sanguineti, che alcuni ragazzi guardano nello schermo di un computer, prendendo appunti. Mirabolanti costumi, scene fantastiche, girate nel palazzo Farnese di Caprarola, nel teatro Farnese e nel palazzo della Pilotta a Parma, nelle terme di Caracalla e in santa Maria in Cosmedin. Il viaggio ariostesco prosegue nel repertorio pittorico generato dalle favole del Furioso (gli affreschi nella volta di Castel Masegna, vicino a Sondrio, e quelli di Palazzo Besta, a Teglio), e giunge a un' altra delle celebri interpretazioni del poema di Orlando: la lettura radiofonica curata da Italo Calvino. Nel 1968 lo scrittore, che della fantasia e della costruzione narrativa di Ariosto fu grande ammiratore, confezionò 25 puntate in cui attori (Albertazzi, Foà, Lupo, Sbragia e Bonagura) recitavano e raccontavano. Le trasmissioni si riascoltano integralmente, mentre tornano alla memoria le storie di Bradamante e dei paladini che Calvino raccoglie nel Cavaliere inesistente o la pazzia di Orlando e Astolfo sulla luna che compaiono in un mazzo di tarocchi nel Castello dei destini incrociati. «L' Orlando furioso è un poema che si rifiuta di cominciare e si rifiuta di finire», diceva Calvino.
Cinque motivi per leggerlo
Agnello Hornby
Ci fa contemplare l'abisso con leggerezza.
Dovevo scegliere i versi dell' Orlando Furioso da leggere al palazzo Te; non avevo il libro e nessuno dei miei amici lo possedeva. Non fa chic leggere Ariosto. Nobili e servi, mori e cristiani, leggiadre donzelle e donne che farebbero paura alle nostre femministe, cavalieri e popolani, maghi e streghe, mostri e animali mitologici si accavallano e si alternano in un susseguirsi di storie che mai annoiano, in cui appare, accanto al cavallo alato, la grande novità del secolo, l' arma da fuoco. L' Occidente rinascimentale è a rischio, come è a rischio il nostro; l' armonia pare che si spezzi. Il geniale cortigiano contempla con leggerezza l' abisso che verrà e nel frattempo canta splendidamente l'amore di tutti i tipi. Grande affabulatore, raffinato poeta e uomo di spirito, Ariosto, non per nulla è molto amato dagli inglesi. Italiani di tutte le regioni, comprate l'Orlando Furioso e godetevelo!
Melania Mazzucco
La rinascita di Marfisa grande eroina sbruffona.
La prima parola dell' Orlando Furioso è "donne". L' ultima è "orgogliosa". Tra i mille personaggi che affollano il poema ce n' è uno solo che le comprenda entrambe. Un cavaliere errante donna: Marfisa. Altiera è il suo epiteto, la sua insegna la Fenice, l' uccello unico al mondo. L' Orlando Furioso inizialmente voleva essere solo una "gionta" - oggi diremmo un sequel - all'Orlando Innamorato di Boiardo: i personaggi, principali o minori, Ariosto li eredita dal predecessore. Però continuando le loro storie se ne appropria e li trasforma, e il cavaliere della Fenice da marionetta comica diventa l' eroina solitaria e sbruffona di una vicenda punteggiata di duelli, stragi, galoppate, tempeste, vendette, agnizioni e conversioni. E finisce addirittura per rappresentare un esempio del valore delle donne, che in una celebre tirata Ariosto difende appassionatamente dalle censure degli scrittori e dall'oblio della storia.
Giorgio Vasta
Con lui si provano i migliori abiti di scena
Il cronometro, il metro, il goniometro, sono gli strumenti di Dante. La Commedia è un trionfo architettonico: tre cantiche; ognuna composta da trentatré canti (con l' eccezione dell' Inferno che con un canto proemiale arriva a trentaquattro); all' interno di ogni canto le terzine incatenate, un esercito di endecasillabi pieni, tetragoni: il volgare fiorentino come milizia, il linguaggio che si fa legione. Ariosto procede in un altro modo. Laddove Dante prende le misure, tira linee indelebili, conficca paletti, Ariosto si dà regole più mobili: prende le misure e poi le disfa, tira le linee col gesso, le cancella, le ridisegna più in là, conficca paletti che poi sradica, li riconficca, si trasforma in castoro e li rosicchia. Si infila in un abito espressivo e ne viene subito fuori, entra in un altro ancora, ne esce e così via. Sembra un Fregoli impazzito che si diverte a provare tutti gli abiti di scena.
Mimmo Cuticchio
Le imprese incredibili fatte per essere ascoltate
Signuri mei sintiti ca c' è di sentiri... Tutto ebbe inizio a Parigi. L' imperatore Carlo Magno aveva fatto preparare feste e grandi divertimenti. Ognuno doveva dare prova di valore in un torneo alla lancia. Nel bel mezzo della festa giunge una principessa di bellezza assai rara, Angelica, accompagnata dal fratello Argalia e da quattro maestosi giganti. Chi vinceva Argalia, avrebbe sposato Angelica, diversamente ne sarebbe rimasto prigioniero. Tutti volevano provarsi, finanche Orlando e Rinaldo, allora Carlo Magno fece un sorteggio. Astolfo e Ferraù di Spagna furono tra i primi estratti. Astolfo viene vinto e fatto prigioniero mentre Ferraù non sta ai patti, uccide i giganti e mette in fuga Argalia. Angelica spaventata fugge tra i boschi. Non appena giunge a corte la notizia della fuga di Angelica, tutti i paladini vanno a cercarla. Anche Orlando. Ora signuri mei, si vuliti sapiri come continua sta storia, viniti a Mantova, picchì io cca a lassu e a Palazzo Te va cuntu.
Giuseppe Barbera
Alberi, foglie e fiori un poema tutto verde
È un paesaggio forestale, di piante annose e di boschi vetusti quello che domina il libro di Ariosto. Luoghi disposti alle battaglie dove ogni tanto si innalzano castelli, radure fiorite, campagne fertili e giardini magnifici che ne interrompono l' intrico e si dispongono a magie e ad amori. Ovunque alberi di tante specie, disponibili ad appendere elmi, a cuocere con il legno pozioni, a offrire con i fiori e i frutti similitudini alla castità e alla bellezza femminile o, con le foglie di immense chiome, a flotte nate da ramoscelli. Sono le parole incise su alcuni di essi che portano Orlando alla consapevolezza del tradimento di Angelica, ad una pazzia che si rivela come un bosco. Contro di essi si accanisce quando essa diviene insopportabile. Contro gli alberi silvestri ma soprattutto contro quelli della campagna. Come avviene adesso, ribadendo una follia che è ancora nostra e che si manifesta nella distruzione dei boschi, nella cancellazione dei paesaggi.
Una scena dell’«Orlando furioso» affrescata al Palazzo di Teglio
«Orlando», l'italiano in cantiere
Il poema dell'Ariosto che tenne a battesimo la lingua nazionale
Italo Calvino invitava ad accostarsi all'Orlando furioso senza tanti preamboli, perché «è un universo a sé in cui si può viaggiare in lungo e in largo, entrare, uscire, perdercisi». È vero, al punto che viaggiando dentro questo fantastico «poema del movimento« rischiò di perdersi per primo il suo stesso autore. La storia editoriale del capolavoro di Ludovico Ariosto è infatti una delle più tormentate che si conoscano: l'opera nasce nei primissimi anni del Cinquecento, quando il poeta non è ancora trentenne. Nel gennaio 1507, a Mantova, Ariosto legge a Isabella d'Este Gonzaga qualche brano del nuovo testo, che ha già cominciato a incuriosire la corte. Solo nel 1516, a Ferrara viene licenziata la prima edizione (A) di quaranta canti, ma nel giro di tre anni l'autore avvia la revisione e sempre a Ferrara nel 1521 consegna alle stampe una seconda edizione (B).
L'anno chiave per Ariosto, e non solo per lui, è il 1525, quando escono le Prose della volgar lingua, il trattato con cui l'amico Pietro Bembo «fonda» lo stile e la grammatica della lingua letteraria sulla base dei maggiori scrittori trecenteschi. Ariosto ne rimane sconvolto, al punto da essere indotto a rimettere mano al suo poema per uniformarlo al toscano letterario ripulendolo della veste regionale primitiva. Dopo una lunga rielaborazione, nell'ottobre 1532, pochi mesi prima della morte, il poeta pubblica la terza e definitiva edizione (C) dell'Orlando furioso, ampliato di sei canti.
Il lavoro di una vita dell'Ariosto è anche il lavoro della vita di Cesare Segre, il filologo che più di tutti ha studiato il poeta emiliano, sin da quando, giovanissimo, era assistente del filologo Santorre Debenedetti, suo prozio: è infatti con il binomio Debenedetti-Segre che uscirà, nel '60, l'edizione critica del poema. Ma oltre che all'opera maggiore, Segre si è dedicato, con studi e edizioni critiche, anche alle minori (a un volume Ricciardi del '54 seguono quelli dei Classici Mondadori). L'impresa più lunga e difficile arriva però adesso, con il Rimario diacronico del Furioso. «Disporre di tutto l'insieme delle rime e del lessico, parola per parola, nel loro svolgimento da una redazione all'altra permette di verificare il sistema linguistico dell'Ariosto in movimento», osserva Segre.
Un primo progetto fu avviato nel '65 con l'Olivetti, allora all'avanguardia nell'elettronica. La chiusura dell'attività olivettiana nel settore dei computer impose una sospensione. Se ne riparlò anni dopo con l'Accademia della Crusca: «Dato che l'Ariosto fu lo scrittore che più di tutti ha contribuito all'affermazione del toscano letterario come lingua nazionale, una concordanza diacronica avrebbe permesso di seguire le fasi di questa impresa». L'impresa richiede necessariamente una cooperazione tra informatici e filologi: con l'apporto tecnico di Antonio Zampolli e in seguito di Eugenio Picchi, con il lavoro filologico di Luigina Morini e di Clelia Martignoni, con il contributo informatico di Manuela Sassi, nel '74 la conclusione sembra vicina, ma non è così. Gli oltre trent'anni che seguono sono una specie di romanzo, con complicati passaggi da un software all'altro, e persino con pacchi di carta che spariscono e costringono a rifare una parte del lavoro. Solo con il sostegno dello Iuss (l'Istituto pavese di studi superiori, diretto da Roberto Schmid) si va verso il lieto fine.
Ed eccolo qui, infatti, il Rimario, su carta (e su dvd): un monumento in due volumi, diretto da Segre, che solo ad apertura di pagina rivela la complessità e la bellezza tipografica, tra varietà di corpi, caratteri, segni e nuove simbologie. L'obiettivo è quello di registrare, sulla base di C, le varianti delle edizioni precedenti A e B in tutte le possibili situazioni testuali. Ci sono casi molto semplici, per esempio la sostituzione quasi sistematica di una parola con un sinonimo (come i cavalli che diventano destrieri o gli amatori che diventano amanti). Ci sono casi in cui il cambio di una sola parola in rima (la caduta di certi latinismi o di forme dialettali) genera conseguenze a cascata: vedi l'eliminazione quasi sistematica dell'avverbio presto(sostituito in C da soluzioni varie tra cui il sinonimo tosto) o l'esigenza di cassare tutte le sdrucciole in rima (scompaiono, tra l'altro, opera, povero e povera); ci sono le ottave inserite solo nella B e nella C, per non dire dei sei canti inventati ex novo nel '32. Il Rimario (unico esempio, finora, di rimario «diacronico», che registra cioè le varianti d'autore) dà conto, ovviamente del contesto.
Cesare Segre 84 anni, è filologo e critico letterario, professore emerito dell’Università di Pavia e direttore del Centro di ricerca su testi e tradizioni testuali dello Iuss di Pavia. Fra le opere: «I segni e la critica» (1969)Segre accenna al «progressivo depurarsi linguistico del poema».L'antecedente più vicino ad Ariosto era l'Orlando innamorato, dove però viene utilizzata una lingua ben diversa: «Al Nord la lingua corrente era un toscano mescolato con il dialetto, come dimostra il Boiardo: Ariosto sulle prime ne segue l'esempio, ma nelle due redazioni successive ripulisce la lingua fino ad arrivare a un toscano puro, tanto che il Furioso verrà assunto come un modello linguistico anche dal Dizionario della Crusca. Quello di Ariosto è un lavoro attentissimo, parola per parola, che ora riusciamo a seguire nel suo insieme: è significativo che quando decide di cambiare un termine o una forma fonetica, lo faccia anche a costo di mandare all'aria tutte le rime dell'ottava».
Un lavorìo ben diverso dal risciacquo manzoniano in Arno, perché mentre Ariosto tiene conto, quasi da storico della lingua, delle stratificazioni letterarie, l'ideale di Manzoni è opposto: «La lingua de I promessi sposi è il fiorentino vivo, che invecchia subito, perché soggetto a trasformarsi col tempo: Manzoni, riproducendo il parlato contemporaneo, fa una scelta utopica contro la storia della lingua; Ariosto invece ha un'idea evolutiva, fa i conti con i tre secoli precedenti, con Dante e Petrarca. Nell'ultima redazione, poi, acquisisce una dimensione meno umanistica e più rinascimentale». Magari sacrificando qualcosa al colore e alla brillantezza a favore dell'euritmia e della simmetria classica: «Qualcuno - ricorda Segre - preferisce la prima redazione. Per me è una scelta difficile: l'eccesso di equilibrio e di classicità dell'ultima edizione può anche dar fastidio rispetto alla freschezza precedente, dove si prende anche la libertà di parteggiare per gli Estensi e i francesi loro alleati, mentre nella C celebra senza calore l'imperialismo di Carlo V. Ma d'altra parte nell'edizione '32, che può apparire più ingessata, Ariosto inserisce episodi stupendi, come quello di Olimpia». Anche con i contemporanei si propongono problemi analoghi: «In effetti, non sempre l'ultima volontà dell'autore è la migliore. Le Cinque storie ferraresi di Bassani sono molto più scorrevoli e stilisticamente ricche nella prima edizione, poi con il lavoro successivo vengono rese più pesanti e aggrovigliate. Anche la Gerusalemme conquistata è più brutta della Liberata: per fortuna, come posteri abbiamo la possibilità di scegliere. Per Ariosto scegliere è difficile».
Come si vive in compagnia di Ariosto per più di cinquant'anni? «Il Furioso è un'opera divertente, rasserenante, solare, un'opera di straordinaria libertà, non per niente piacque a Voltaire e a Calvino. Basti pensare a come affronta l'aldilà: a così poca distanza dal Medioevo doveva risultare strabiliante. È un libro non antireligioso, ma a-religioso, senza tutte le manie del Tasso, per il quale non ho mai avuto una gran simpatia. Certo, è molto lungo, 38.736 versi, il triplo della Divina Commedia, che al confronto sembra un libriccino». Eredi? «Il testimone, quando la fortuna dell'Ariosto va declinando, passa direttamente a Cervantes».
Paolo Di Stefano18 maggio 2012 (modifica il 29 maggio 2012)
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