Edgard Degas, «Dans un café dit aussi» (1875-76, particolare) |
Stefano Montefiori, "Corriere della Sera", 27 settembre 2012 |
PARIGI - Barba incolta e pipa in bocca nell'autoritratto del 1846, Gustave Courbet (il pittore dell'Origine del mondo) scrisse pochi anni dopo una specie di «manifesto del bohémien» nella lettera all'amico Francis Wey: «Nella nostra società così civile bisogna che io conduca una vita da selvaggio, bisogna che io mi liberi dei governi. È il popolo a godere delle mie simpatie; devo rivolgermi direttamente a lui, per trarne ispirazione e sostentamento. Ecco perché ho appena dato inizio alla mia nuova, grande vita vagabonda e indipendente del bohémien».
Era fatta: vivere ai margini, preferire l'arte e la libertà alla carriera e al guadagno diventava non solo una scelta o un destino ma un atteggiamento estetico, l'adesione consapevole a un preciso stile di vita. Nasceva una categoria esistenziale e artistica che ha prodotto un po' di ciarpame autoindulgente, tanti capolavori - dalle opere di Puccini e Leoncavallo alle poesie dei «Maledetti», dai Van Gogh ispirati dall'assenzio ai romanzi della beat generation - e una mitologia della bellezza nella trasandatezza genialmente sintetizzata ormai 12 anni fa da David Brooks nella sua formula «bobo» («bourgeois-bohème»): ho i soldi di un ricco e triste borghese, mi agghindo da affascinante zingaro.
Con supremo gesto «bobo», il Grand Palais di Parigi ospita da ieri (e fino al 14 gennaio) una grande mostra dedicata alle «Bohèmes». Il tempio di vetro e acciaio della borghesia trionfante, che nel 1900 accoglieva la prima Esposizione universale, propone un appassionante viaggio nelle tante bohème (ecco spiegato il plurale) che si susseguono in Francia e nel mondo dal Quattrocento a oggi.
La bohème reale, innanzitutto, quella che dà origine al mito, molti secoli prima dei cabaret di Montmartre: nel 1421 nella città di Arras arrivano bizzarri stranieri ai quali viene dato il nome di «Egyptiens», egiziani (in realtà giungono dai Balcani e ancora prima dall'India del Nord, ma quell'appellativo rimane e darà in inglese «Gypsy»). Entrano in Francia grazie a un salvacondotto fornito da Sigismondo, re di Boemia, e per alcune centinaia di anni il termine bohémiens servirà a indicare, in francese, non artisti scapigliati ma il popolo che oggi chiamiamo Rom; tra i più importanti e antichi degli oltre 200 dipinti dell'esposizione, un disegno di Leonardo da Vinci (1493) mostra un signore attorniato da quattro tzigani. I bohémiens sono gli zingari che attraversano l'Europa con le carovane, che non hanno patrimonio né terre, che irritano e attraggono i cittadini con la loro libertà e l'amore per la musica e la danza.
Partitura della «Bohème» (Archivio Ricordi)
Comincia a crearsi così quello stereotipo romantico dello zingaro, del bohémien pieno di verve e sensualità che produrrà un personaggio come Esmeralda nel romanzo Notre-Dame de Paris di Victor Hugo (1831).
«Sono rappresentazioni fantasiose - dice il commissario dell'esposizione, Sylvain Amic -, e lo sottolineiamo all'inizio della mostra. I veri bohémiens, i Rom, non assomigliano ai personaggi dipinti dagli artisti successivi. Nei loro confronti oscilliamo continuamente tra fascinazione, repressione e rigetto. Quanto alla vita da bohème, quelli che la vivono veramente non la teorizzano e quelli che la dipingono l'hanno raramente vissuta. Ma al di là dell'artificio, si tratta di un vero mito moderno, che attraversa la musica, il cinema, la letteratura, la fotografia».
Per non parlare del turismo: milioni di persone arrivano ogni anno a Parigi nella speranza di passare almeno qualche giorno e qualche notte secondo i quattro comandamenti della vita da bohème enunciati nel film Moulin Rouge (2001) di Baz Luhrmann: «Libertà, Bellezza, Verità, Amore».
La saldatura tra la bohème reale dei Rom e quella artistica dei giovani parigini arriva a metà Ottocento, quando il giornalista Félix Pyat coglie il mutamento in corso: è finita l'era dei cortigiani di regime, degli artisti che si mettono sotto la protezione del principe o del mecenate. «La mania attuale dei giovani artisti di volere vivere fuori del loro tempo - scrive Pyat -, secondo altre idee e altri costumi, li isola dal mondo, li rende estranei e bizzarri, li mette al di fuori della legge, al bando della società; sono i bohémiens (cioè gli zingari) di oggi».
Vincent van Gogh, «Les Roulottes» (1888)
In Les Roulottes Vincent Van Gogh descrive nel 1888 il campo nomadi di Arles, e risale più o meno alla stessa epoca Chaussures , sorta di incrocio tra una natura morta e un autoritratto, nel quale l'artista dipinge le proprie scarpe sfondate: espressione di povertà - a Van Gogh capitò di dare alcune sue opere in cambio di un po' di caffè - e sogno di un nomadismo bohème. A metà Ottocento lo stile di vita «zingaresco» era talmente alla moda e popolare che le Scene della vita bohème e le vicende del loro autore Henri Murger ispirarono sia Giacomo Puccini sia Leoncavallo: la mostra espone la partitura originale del quarto atto (la morte di Mimì) della Bohème di Puccini, consacrazione definitiva e planetaria di una nozione e uno stile di vita.
Dopo l'epopea di Montmartre e poi di Montparnasse, dei locali «Le Chat Noir», «Le Lapin Agile» e il «Cafè de la Nouvelle Athènes» in place Pigalle, dove Edgar Degas ambienterà il suo L'assenzio, la mostra finisce tristemente, con le fotografie dell'esposizione sull'arte degenerata organizzata da Jospeh Goebbels a Monaco nel 1937.
È il momento in cui i destini dei Rom, i veri, originari bohémiens, e degli artisti, i loro emuli di maniera, tornano a incrociarsi. Come esempio perfetto dell'arte da colpire e cancellare, i nazisti mostrano le opere di Otto Mueller, che tra il 1924 e il 1929 aveva frequentato gli zingari dei Balcani ricavando da quell'esperienza una sorta di manifesto contro la vita cittadina e in favore dello stato di natura. Di lì a poco gli zingari saranno mandati nei campi di concentramento (e circa mezzo milione vi troveranno la morte). «Il 1937 è il momento della condanna di un popolo e della sua rappresentazione - spiega il curatore Amic -. Gli tzigani vengono sterminati, e gli artisti che hanno subito il loro fascino (come Otto Pankok, Emil Nolde, August Sander, László Moholy-Nagy) condannati a non dipingere più».
Da sinistra:
Ritratto di Edgard Degas (Parigi 1834 – 1917)
«Autoritratto» (1884) di Vincent van Gogh (1853 - 1890)
Il compositore Giacomo Puccini (1858 – 1924)
La bohème sembra a quel punto finita, ma il suo mito è destinato a risorgere oltre Atlantico, nella California degli anni Cinquanta: la ribellione al conformismo, il sogno più o meno velleitario di una vita meno grigia e inquadrata sono motori che non si fermano mai. In Francia i campi dei bohémiens di oggi vengono smantellati, dalla destra di Sarkozy come dalla sinistra di Hollande, ma il Grand Palais dedica agli antenati e ai loro scimmiottatori di immenso talento una delle mostre più importanti dell'autunno: la secolare storia di rigetto e fascinazione continua.
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