"Corriere - La Lettura", 6 ottobre 2013
Luciano Canfora
Fu il primo imperatore di Roma ma restò il capo di una fazione I l bimillenario augusteo del 1937 coincise con l'acme del regime fascista e ne incarnò la più compiuta autorappresentazione. In una prima fase — quella del fascismo «rivoluzionario» — fu Cesare il modello assunto come antecedente. Ciò non sorprende se si considera che il mussolinismo si proponeva — per dirla con la formula adoperata da Gramsci per definire il cesarismo e in particolare il mussolinismo — come risolutore di un «conflitto a prospettiva catastrofica»: quel conflitto tra capitalismo liberale e comunismo socializzatore, ispirato al bolscevismo europeo, che aveva percorso e scosso l'Italia nell'immediato dopoguerra. Escogitando quella cruciale e significativa formula, Gramsci riconosceva, sia al cesarismo che al fascismo, una funzione storica pur tuttavia positiva, un ruolo positivo che lo sviluppo delle forze in campo assegnava per l'appunto alla soluzione cesaristica e interclassistica, portatrice comunque di una novità anche — e non è poco — per quel che attiene alle forme e alla struttura del potere.
Quando il fascismo si assesta come regime e il volto conservatore e restauratore prepondera e il patto con i ceti usciti vincitori dalla guerra civile italiana del 1919-22 si fa più saldo, Augusto subentra a Cesare, nell'autorappresentazione del regime. La fondazione dell'impero conseguente alla conquista dell'Etiopia contribuisce validamente a questa svolta. Si giunge così al potente dispiegamento di energie intellettuali e pratiche confluite nella «Mostra augustea della Romanità» (1937-1938), di cui fu pubblicato un amplissimo e molto ben curato Catalogo. Innovazione rivestita di conservazione, rafforzamento del potere personale senza apparentemente stravolgere la Costituzione (si pensi — ad esempio — alla creazione sin dal dicembre 1926 della figura del «capo del governo» in sostituzione del «primo ministro») furono gli ingredienti fondamentali.
Una larga parte del ceto universitario e intellettuale gravitante sul settore antichistico — archeologi (immessi abilmente nei canali della politica estera), storici, letterati e in genere studiosi di cose romane — si sentì in quella occasione memorabile direttamente mobilitata. Erano anche questi, non soltanto i giuristi e gli economisti, gli intellettuali organici del fascismo. Si produsse allora non soltanto un'assunzione diretta di ruolo ideologico-politico da parte di un pezzo importante della intellettualità italiana, ma anche una lettura corretta della realtà augustea. Lo ha rilevato bene Paul Zanker nelle pagine introduttive del ben noto volume einaudiano Augusto e il potere delle immagini.
Non è privo di interesse gettare uno sguardo al complesso di testi antichi, medievali, moderni, contemporanei, che costellavano e illustravano le sale della gigantesca ed efficacemente organizzata «Mostra augustea della Romanità» inaugurata per l'appunto nella ricorrenza bimillenaria della nascita di Augusto, il 23 settembre 1937, e destinata a restare aperta per un intero anno (venendo così a coincidere, alla sua conclusione, con il varo delle leggi razziali, nel settembre del 1938).
Innanzitutto una considerazione merita l'imponente schiera di classicisti impegnati nell'impresa, i cui nomi erano posti in grandissima evidenza all'apertura stessa del Catalogo (da Amedeo Maiuri ad Arnaldo Momigliano, da Evaristo Breccia a Domenico Mustilli, da Doro Levi a Massimo Pallottino, da Attilio Degrassi a Nicola Turchi etc.). Non creò problema a nessuno di loro trovarsi collocati, con tanta enfasi, come veri costruttori della mostra al principio di un Catalogo che si apriva nel nome del Duce e che, nella sezione XXVI, intitolata Immortalità dell'idea di Roma e Rinascita dell'Impero, culminava nella formulazione strettamente «mazziniana» di Mussolini: «Roma è il nostro punto di partenza e di riferimento. È il nostro simbolo o se si vuole il nostro mito. Noi sogniamo l'Italia romana cioè saggia e forte. Molto di quello che fu lo spirito immortale di Roma risorge nel fascismo: romano è il littorio, romana la nostra organizzazione di combattenti, romano è il nostro orgoglio e il nostro coraggio. Civis Romanus sum».
Nella Sala dell'impero (la seconda), in apertura Mussolini avverte: «Io non vivo del passato», e precisa: «Per me il passato non è che una pedana»; quindi si alternano Livio («Roma caput orbis terrarum»), Carducci («E tutto che al mondo è civile, grande, augusto, egli è romano ancora»), Elio Aristide, daccapo Livio («Et facere et pati fortia Romanum est», gesta forti e sofferenze forti sono entrambe degne dei Romani), Ammiano, di cui viene trascelta la frase «victura, dum erunt homines, Roma» con la chiosa che victura è «voce verbale tanto di vivere quanto di vincere» e che dunque «nella frase è implicito il concetto che Roma sarà sempre vittoriosa» finché ci saranno uomini; quindi una frivolezza imperialistica del povero Tibullo («Roma, il tuo nome è designato dal fato a reggere tutte le terre...»: terris regendis viene un tantino forzato, nella traduzione, in «tutte le terre»).
Nella X Sala (Augusto) — che è anche la più importante vista l'occasione e il senso della mostra — l'assimilazione tra Augusto e Mussolini diventava esplicita. La scelta dei brani è parlante: a) le parole di Augusto sulla durevolezza del suo riordino statale (Svetonio, Augusto, 28); b) Augusto pater patriae (Svetonio, Augusto, 58); c) la definizione di «capo» da parte di Mussolini nel 1925: «Nella silenziosa coordinazione di tutte le forze, sotto gli ordini di uno solo, è il segreto perenne di ogni vittoria». Da notare però che in Mussolini è ben chiaro il distacco dalla mera tautologia rispetto al passato antico: «Io non vivo del passato/ Per me il passato non è che una pedana...».
Oggi — com'è ovvio — una mostra augustea — quale quella che si inaugura il 18 ottobre alle Scuderie del Quirinale — nel bimillenario della morte (14 d.C.) non ha più la forza immediatamente politica di quella voluta dal Duce. Augusto è stato, nella coscienza degli studiosi, ridimensionato e restituito al suo ruolo di «capoparte», da lui incarnato dal primo all'ultimo giorno della lunghissima sua carriera (44 a.C.-14 d.C.).
Morendo egli chiese agli astanti — lucido fino all'ultimo minuto come ce lo rappresenta Svetonio — se avesse interpretato bene, da bravo attore, la sua parte. Quella schietta autorappresentazione del «principe», massimo cultore del potere in quanto tale, e intimamente persuaso che il suo potere personale e il bene generale coincidessero, valgono più di tanti pur pregevoli sforzi moderni miranti a collocare la sua azione politica dentro categorie generali (restaurazione dei costumi, pace civile, privilegiamento dell'Occidente, ruolo dell'Italia all'interno della costruzione imperiale, maggiore mobilità sociale). Tutto ciò che leggono nella sua opera i moderni è spesso la proiezione dei loro convincimenti e delle loro categorie. Augusto — il bravo attore morente — avrebbe sorriso di loro: al solo Ronald Syme, al Syme del saggio La rivoluzione romana, avrebbe forse reso l'onore delle armi.
Nessun commento:
Posta un commento