Scoperto il ritratto fatto a Isabella d’Este. Risolto un mistero durato 500 anni
Pier Luigi Vercesi
"Corriere della Sera", 4 ottobre 2013
È lì, rinchiusa in un caveau svizzero, con una corona in testa e una palma impugnata come uno scettro, dettagli quasi certamente aggiunti dagli allievi «più affezionati» (Salaì e Melzi) che il maestro portò con sé a Roma nel 1514. Isabella d’Este, addobbata come fosse santa Caterina d’Alessandria, aspetta di entrare, per la prima volta da quando la dipinse Leonardo, in un museo.
La sua storia — ricostruita in esclusiva da «Sette» — ha gli ingredienti di un thriller. Con buone probabilità di approdare a un epilogo positivo. Era cominciata con un cartone preparatorio (conservato al Louvre) abbozzato da Leonardo nel 1499 durante un soggiorno a Mantova, ospite dei Gonzaga; negli anni successivi, più volte la marchesa inviò lettere e ambasciatori implorando che lo schizzo venisse trasformato «de colore», ma nulla di più, salvo l’«avvistamento», nel 1517, del ritratto di una signora lombarda nel castello di Blois. Poi, un silenzio «assordante» che ha prodotto fiumi d’inchiostro e la conclusione, di sconsolati studiosi, che forse il quadro non era mai stato realizzato o che Isabella non foss’altro che la Gioconda: Mona Lisa, ovvero Mona l’Isa (bella). Tre anni e mezzo fa, infine, il ritratto è riemerso dall’eredità di una famiglia che vive, dagli inizi del Novecento, tra il Centro Italia e la Svizzera, a Turgi, nel cantone Argovia.
Ma andiamo per ordine. Innanzitutto, i proprietari (di cui non conosciamo il nome) apprenderanno da queste pagine che il loro non è più un segreto. Da cronisti, non potevamo attendere: venuti in possesso della fotografia del quadro, della prova del Carbonio 14 (che data i materiali) e, soprattutto, di una lettera con le conclusioni del professor Carlo Pedretti, ritenuto unanimemente il massimo studioso di Leonardo (direttore del Centro Studi Vinciani dell’Hammer Museum di Los Angeles), dovevamo andare a fondo e raccontare tutta la storia, dopo aver raggiunto la ragionevole certezza di non essere incappati in una sorta di «falso diario di Hitler». Anche perché, negli ultimi anni, le polemiche attorno a Leonardo e a sue ipotetiche opere hanno animato le cronache (ancor più dopo il romanzaccio di Dan Brown). Prima di andare in stampa, allora, abbiamo parlato con Pedretti. Il professore ci ha scongiurato di aspettare: «Non ci sono dubbi che il ritratto sia opera di Leonardo, però, dopo tre anni e mezzo di studi, ci serve ancora una manciata di mesi per definire quali sono le parti aggiunte dagli allievi e proporre di cancellarle».
Al professore, il quadro era stato portato da un insegnante d’arte che ha dedicato la vita allo studio di Leonardo, Ernesto Solari, non nuovo a scoperte in materia leonardesca, di cui Pedretti ha stima avendolo citato più volte nei suoi libri. Solari aveva avuto l’intuizione e, soprattutto, sapeva dove cercare. In questi tre anni e mezzo, oltre ai documenti che riportiamo su «Sette», sono stati fatti altri accertamenti scientifici. Il primo, realizzato grazie a tre prelievi dall’opera, ha dimostrato che i pigmenti sono esattamente quelli utilizzati da Leonardo; il secondo, che l’imprimitura della tela è preparata secondo la ricetta scritta da Leonardo nel suo Trattato; infine, la cosa più stupefacente: la fluorescenza ha fatto riapparire, davanti alla mano, il libro, simbolo di Isabella protettrice di Lettere e Arti, presente nel cartone del Louvre.
Ora si apre il dibattito sull’autenticità del dipinto. Se, come tutte le ricerche sembrano attestare, il ritratto è stato realizzato da Leonardo e poi ultimato dai suoi allievi, potrebbe cambiare un pezzo significativo della Storia dell’Arte. Il quadro e la sua tecnica sono precedenti la realizzazione della Gioconda e del San Giovanni Battista, sui quali ha quindi profondamente influito. Dovrebbero anche essere ridiscusse alcune conclusioni a cui è giunto il numero due degli studiosi di Leonardo: Martin Kemp. Le sue teorie sembrano costruite addosso a quest’opera, in particolare quando sostiene che Leonardo non era un pittore di professione e quasi mai ha portato a termine le sue opere, spesso conservandole presso di sé fino alla morte; dice, inoltre, che era uno sperimentatore, soprattutto nella pittura, escludendo, però, che avesse realizzato quadri su tela. Questa Isabella è su tela, una tela preparata secondo la «ricetta di Leonardo». Misteri di un genio. E misteri delle opere a lui attribuite.
Povero Leonardo: il capolavoro ritrovato è solo una crosta
Tomaso Montanari
"il Fatto", 5 ottobre 2013
A OCCHIO NUDO Il “Leonardo dimenticato” è in realtà un dipinto a colori (Santa Caterina d’Alessadria) che ricalca il ritratto leonardesco (in bianco e nero) di Isabella d’Este conservato al Louvre
Leonardo, il capolavoro ritrovato”, “Potrebbe cambiare un pezzo significativo della storia dell’arte”: sulla copertina di Sette e sul Corriere di ieri è ricomparso tutto l’armamentario retorico del “grande scoop” .
INFORTUNIO DI “SETTE”: SPACCIA PER OPERA AUTENTICA UNA (BRUTTA) COPIA DIPINTA DI UN DISEGNO CONSERVATO AL LOUVRE. ENNESIMO ESEMPIO DI COME IN ITALIA, QUANDO SI PARLA DI ARTE, LA VERIFICA DELLE FONTI SIA UN OPTIONAL
Leonardo, il capolavoro ritrovato”, “Un mistero durato 500 anni”, “Potrebbe cambiare un pezzo significativo della storia dell’arte”: sulla copertina di Sette e sul Corriere della Sera di ieri è ricomparso, come per incanto, tutto l’armamentario retorico del “grande scoop” artistico che ciclicamente affligge i giornali italiani.
E, come nel 99% dei casi, anche questa volta lo si è estratto dalla naftalina senza ragione: perché si tratta dell’ennesima bufala inflitta alla memoria del povero Leonardo da Vinci, un artista così maltrattato che se esistesse il telefono azzurro dei grandi maestri gli converrebbe chiedere la linea diretta.
Stavolta si tratta di un quadro che raffigura Santa Caterina d'Alessandria, e che riprende testualmente un’invenzione (questa sì) leonardesca, attestata in un celebre disegno del Louvre in cui il Vinci ritrasse Isabella d’Este. Un documento storico di un certo interesse, dunque: che però Carlo Pedretti (decano dei leonardisti) attribuisce nel volto allo stesso Leonardo, e nel resto a un allievo (il “Salai o il Melzi”, scrive nell'expertise pubblicato integralmente da Sette).
MA BASTA guardare anche solo la fotografia per capire che siamo di fronte a una (brutta) copia. Certo, a meno che sotto quel che si vede non si nasconda tutta un’altra stesura pittorica. Ma allora tanto varrebbe pubblicare la foto di una tenda, e scrivere: “Fidatevi, dietro c’è un Leonardo”.
Ma stiamo a quel che si vede. Chi di voi se la vorrebbe mettere in casa, una simile crosta? E questo è il punto: la storia dell’arte non è una disciplina tanto arbitraria ed esoterica da ribaltare la realtà e il senso comune fino a poter stabilire che un quadro che appare francamente brutto a chiunque abbia occhi sia invece nientemeno che un capolavoro di Leonardo! Se la si racconta così, il risultato inevitabile è che il pubblico si senta preso in giro, allontanandosi. Ed è uno spreco assurdo: perché se è vero che il culto di massa di Leonardo è anche il frutto di un martellante conformismo mediatico, è anche vero che la gente fa la fila perché quei quadri sono capaci di comunicare la loro straordinaria bellezza anche a chi non sa nulla di storia dell’arte.
Dopo che l’Ansa pubblicò con straordinario clamore i cento disegni “di Caravaggio” (che nessuno oggi ricorda più, anche se è passato solo un anno), scrissi su queste pagine: “La prossima volta che qualcuno si presenterà con cento terrecotte di Leonardo o cinquanta marmi di Michelangelo verrà dunque sottoposto a una qualche verifica? Tutto lascia credere di no: per la prossima bufala storico-artistica è solo questione di giorni”.
Ed eccoci qua: non è servito l’infortunio dell’Espresso col finto Raffaello in copertina, né quello del Sole 24 Ore col finto Caravaggio in prima. E uno si chiede, per l’ennesima volta, ma perché un giornale come il Corriere della Sera sdogana una simile enormità?
LA RISPOSTA è: perché non ha ritenuto di dover controllare la fonte, fidandosi a scatola chiusa della pretesa auctoritas che ha proposto l’attribuzione, il professor Carlo Pedretti. Ma per non fare figuracce sarebbe bastato, non dico consultare la bibliografia scientifica, ma almeno interrogare l'archivio storico dello stesso Corriere. Lì si trova, per esempio, la mirabile notizia che nel 1998 Carlo Pedretti pubblicò ed espose come di Leonardo il disegno di un cavallo che il pittore contemporaneo Riccardo Tommasi Ferroni (1934-2000) aveva eseguito in gioventù. Il disegno fu riconosciuto come suo dallo stesso Tommasi Ferroni, che visitava la mostra insieme a Vittorio Sgarbi: e quest’ultimo racconta che mentre l’artista era in fondo lusingato, fu l’accademico a offendersi, sentendosi gabbato. Un precedente che avrebbe potuto indurre la redazione a un minimo di prudenza: e che non è l’unico che si potrebbe raccontare. Pedretti è, per esempio, l’unico leonardista che abbia appoggiato la scervellata ricerca della Battaglia di Anghiari cavalcata da Matteo Renzi.
Accanto al culto acritico del-l’autorità, c'è poi la venerazione altrettanto prona del dato scientifico presunto esatto. Alludo all’immancabile esame del carbonio 14, che stabilisce che il dipinto sarebbe stato realizzato tra 1460 e 1650: cioè da quando Leonardo aveva otto anni a quando era morto da 231. Un dato utile, non c’è che dire! E anche ammesso che sia vero, cosa mai può aggiungere a ciò che l’occhio immediatamente rivela: e cioè che si tratta di una (brutta) copia dipinta (se è vero) in quel lasso di tempo?
E allora, che si dovrebbe fare quando si riceve una notizia del genere? Semplice: seguire regole elementari, quelle che gli stessi professionisti applicherebbero istintivamente in tutti gli altri ambiti, ma che sembrano evaporare a contatto con l’ineffabile magia che circonfonde la “critica d’arte”. E cioè: verificare l’attendibilità delle fonti, sentire pareri terzi, fidarsi dei propri occhi e non genuflettersi alla (presunta) autorità.
SAREBBE davvero importante che questo messaggio passasse, una volta buona. E non per il buon nome del giornalismo italico (che ha ben altri problemi!): ma perché ogni lancio di agenzia, articolo di giornale o servizio televisivo che contribuisca a propalare la bufala figurativa di turno non solo comunica il falso e promuove l’eradicamento del senso critico, ma – nei rigidi palinsesti italiani – toglie spazio a un discorso sulla storia dell’arte che possa educare al patrimonio diffuso, denunciarne lo stato rovinoso, promuoverne la conoscenza e la frequentazione. Ed è questo che è grave.
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