Achille Bonito Oliva
“La Repubblica“, 23 febbraio 2014
VIENNA. “La mia vanità, che non ha nulla a che fare con il mio corpo, si riconoscerebbe volentieri in un mostro, se vi riconoscesse lo spirito dell’artista, e io sono orgoglioso della testimonianza di un Kokoschka, perché la verità deformante del genio è più alta di quella dell’anatomia e poiché in presenza dell’arte la realtà è solo un’illusione ottica” (Karl Kraus, Die Fackel).
L’io al centro dell’attenzione è quello di Oscar Kokoschka esposto al Leopold Museum di Vienna: pitture, grafiche e duecento fotografie fino al 3 marzo.
Nel clima della secessione viennese, Oskar Kokoschka (1886 – 1980) adopera la pittura come uno specchio anamorfico capace di alterare la distanza simmetrica tra il modello e il dipinto, di annullare la semplice vista dell’uomo comune che usa l’occhio come un organo di semplice riproduzione visiva e invece fondare una nuova dimensione dello sguardo che presuppone il nervo di una sensibilità particolare e stravolgente.
Lo sguardo diventa un organo con doppia polarità che funziona attraverso un elemento d’introversione a un altro di estroversione. La prima adatta a restituire le tre dimensioni delle cose, il secondo capace di catturarne un’altra, la quarta, quella psichica e interiore. Dunque lo sguardo ha una capacità creativa che appartiene soltanto all’artista, armato di una sensibilità particolare e di un sistema di allarme di estrema e necessaria fragilità. L’intensità di questo sguardo scavalca la temporalità, intesa come pura percezione del presente, ed accede ad una allargata e profetica. Wolf Dieter Dube racconta del ritratto del biologo Forel rifiutato dalla famiglia dello scienziato in quanto ritenuto non rassomigliante. Successivamente il professor Forel, dopo un colpo apoplettico, ha cominciato sempre più a rassomigliare al quadro dipinto da Kokoschka. L’immagine è portatrice di una dimensione allucinata che svela nodi e ferite, cicatrici e ingorghi, stratificati sotto la coltre della rimozione e dell’inibizione. A conferma il suo testo teatrale Assassino speranza delle donne.
L’assassinio delle convenzioni diventa la pulsione originaria dell’arte linguistiche o morali, politiche o sociali. Tutto si realizza attraverso la costruzione di un’immagine che è per definizione un gesto di rifondazione, dopo quello destrutturante delle convenzioni, e dunque di affermazione vitale. Chi produce questo sano, feroce ed anche allegro assassinio è l’artista O.K. che affonda il suo sguardo oltre la soglia del privato senza mai indietreggiare davanti alle indicibili e indecenti apparizioni di verità nascoste.
La pittura dell’artista austriaco passa attraverso una fase di scarnificazione grafica che annulla ogni dettaglio sovrastrutturale e, secondo le cadenze di una sensibilità anche giapponese, capace di una riduzione all’essenzialità della linea, accede ad un segno concentrato in un “punto focale”, lo svelamento di una nascosta ed inaccessibile identità.
Tale punto focale sviluppa una forza di irradiazione e dilatazione dell’immagine, un’energia vitale che trasfigura il soggetto e lo sposta su un versante estremamente interiorizzato. Nello stesso tempo la scarnificazione grafica trova un suo ispessimento attraverso la materia pittorica e stratificata che ricorda la grande lezione italiana di Tiziano, Tintoretto e Veronese. Un doppio passaggio dall’apparenza alla sostanza, dallo scheletro all’opulenza di una nuova carne.
L’arte di O.K. è la pratica di uccisione e resurrezione, di uno svelamento e rivestimento, di una riduzione e una rifondazione della materia: “Ora io costruisco composizioni da volti umani (modelli come le persone che hanno resistito con me per lungo periodo, persone che mi conoscono e che io conosco perfettamente, tanto che mi perseguitano come incubi) e in queste composizioni un essere è in conflitto con un altro in rigida contrapposizione come l’odio e l’amore, e in ogni quadro cerco ‘l’accidente’ drammatico che salderà gli spiriti individuali in un ordine superiore”.
Amore e odio, morte e resurrezione, assassinio e speranza. Due linee attraversano l’opera di Kokoschka: una gotica e una barocca. Quella gotica tende alla scarnificazione e alla restituzione di un permanente motivo dolente, quella barocca a riscattare tale impulso negativo e a rovesciarlo in un’istanza vitale e positiva. Materia e spirito si fronteggiano assiduamente nel campo dell’arte e si attraversano in una sana ambivalenza senza che una sopravanzi l’altra. In questo senso la pittura di O.K. arricchisce il senso comune, creando uno spostamento dalla pura vista allo sguardo complesso.
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