«Non insegno a diventare romanzieri ma a leggere i classici»
intervista di Livia Manera
“Corriere della Sera“, 28 febbraio 2014
«Ha in mente quando Philip Roth a 80 anni ha detto che smetteva di scrivere? Beh, io non ho nessuna intenzione di fare altrettanto!».
Se la ride Edgar Doctorow, che a ottantatré ha appena pubblicato negli Usa un romanzo straordinario, Andrew’s Brain, in cui accompagna il lettore nel lucido delirio mentale di un neuroscienziato, attraverso tali cambiamenti di piani narrativi e sorprese, da risultare il libro più cerebralmente ardito della sua carriera. Il cervello di Andrew sarà pubblicato nel 2015 dalla Mondadori, che intanto manda in libreria in questi giorni una sua raccolta di racconti dal titolo — quasi ironico, in questo contesto — Tutto il tempo del mondo (traduzione di Carlo Prosperi).
Se la ride, dunque, Doctorow, anche se è costretto a camminare con una stampella perché si è fatto male giocando a tennis nel campo di un albergo della Cinquantasettesima strada a Manhattan, dove mi ha dato appuntamento per un caffè e quattro chiacchiere su un tema di attualità culturale come il fenomeno dei corsi di scrittura creativa, di cui è un veterano con quasi mezzo secolo di esperienza. L’idea è nata quando Richard Ford, in una conversazione recente, mi ha detto che il primo a insegnargli a scrivere è stato E.L. Doctorow. E Ford ha appena compiuto 70 anni.
Lei, Doctorow, deve essere il professore più di lungo corso dei master di «creative writing». Quando ha cominciato?
«Ho cominciato nel ‘69, quando stavo scrivendo Il libro di Daniel e ho capito di essere a un bivio. O continuavo la carriera che avevo intrapreso nell’editoria dieci anni prima — ero direttore editoriale della “Dial Press” — o diventavo uno scrittore. E in quel momento mi è piovuto dal cielo un invito a insegnare alla University of California, Irvine: un lavoro che mi avrebbe permesso di scrivere. Ho messo moglie e bambini in macchina e abbiamo attraversato il Paese. Era il mio primo incarico di insegnante e nella mia classe c’era Richard Ford. E ho pensato. Caspita! È facile insegnare! Sono bravi questi studenti!», ride.
E poi?
«Poi ho insegnato a varie riprese: Princeton, Yale, Sarah Lawrence College… E ho scoperto che era un lavoro che non interferiva con la scrittura perché potevo dedicare la mattina ai miei libri e il pomeriggio a insegnare».
Tra le università in cui è stato professore, non ha nominato la New York University (Nyu), di cui è da anni la stella più brillante…
«Questa è una storia buffa», sorride. «La NYU mi aveva invitato a insegnare solo un corso temporaneo. Poi un giorno mi chiama il presidente dell’università e mi dice: abbiamo ricevuto un grosso finanziamento per una cattedra nel dipartimento di inglese, a condizione che questa cattedra sia in permanenza affidata a te. E io ho pensato: questo è un errore. Nessuno scrittore dovrebbe prendere un impegno simile. Ma quando ho cercato di spiegare le mie ragioni ho visto che il presidente faceva una faccia disperata. Edgar, mi ha detto alla fine, tu non capisci: se tu muori domani noi continueremo ad avere la cattedra e i soldi lo stesso», e scoppia in una risata.
Che cosa insegna esattamente alla Nyu?
«Un corso che si chiama “Artigianato della scrittura” in cui studiamo opere importanti di epoche e stili diversi, per insegnare agli studenti come leggono gli scrittori. Quest’anno il programma comprende Von Kleist, Kafka, Edgar Allan Poe, Virginia Woolf, Sebald, Faulkner e Mark Twain. È scioccante scoprire quanto poco siano letti questi scrittori».
Ma per anni ha insegnato scrittura creativa. Un’invenzione tutta americana…
«Sì, è una cosa che è nata qui alla fine della Seconda Guerra mondiale, per via del GI Bill (una legge che permetteva ai veterani di frequentare l’università gratis, ndr ). Grazie a questa legge molte persone che non avrebbero potuto andare all’università hanno avuto invece questa possibilità. Parlo di romanzieri ma anche di poeti. E quando un poeta usciva dall’università con un dottorato, aveva la possibilità di trovare un lavoro insegnando ai giovani poeti in erba. O ai romanzieri in erba. E così l’università americana è diventata lo sponsor ufficiale della letteratura del Paese».
Quanto sono utili davvero questi corsi?
«Molti ragazzi che frequentano i master di scrittura creativa non diventeranno mai seriamente scrittori. Diciamo che su una classe di quindici persone, ne hai due o tre bravi, quattro o cinque che diventeranno giornalisti, e altri due o tre che avevano solo bisogno di una psicoterapia», ride ancora mentre sorseggia il suo espresso decaffeinato.
Ma non le pare che questo sistema di insegnamento abbia cambiato il modo in cui oggi si scrive in America?
«Sì, nel senso che gli studenti ne escono tecnicamente più intelligenti dei loro predecessori che erano formati dai giornali. Ma sono anche più timidi, meno disposti ad abbracciare il mondo intero. E questo a causa della natura accademica della formazione. D’altro canto, i master di scrittura creativa sono diventati un modo di finanziare l’industria editoriale. Ai vecchi tempi un editore individuava un talento e poi doveva mantenerlo in vita per tre anni perché producesse qualcosa. Oggi gli editor valutano manoscritti già approvati da insegnanti che spesso sono scrittori affermati. E questa è una manna per l’industria editoriale. È anche un sistema che genera grossi profitti per le università».
Allora tutti ci guadagnano e non ci rimette nessuno?
«No. Un pericolo c’è. Quello principale è che qualcuno prenderà un diploma, pubblicherà un libro e poi troverà un lavoro in qualche college, dove insegnerà ad altri come lui a diventare scrittori-insegnanti. Il che crea una sottocultura che non ha niente a che vedere con la vita letteraria, ma ha a che vedere con insegnanti che scrivono, e che insegnano ad altre persone a diventare insegnanti che scrivono. E non c’è niente che si possa fare a riguardo».
Il sospetto è anche che questi corsi abbiano creato una generazione di scrittori più addomesticata della precedente, con meno grinta, più secchiona…
«No, su questo non sono d’accordo. Io penso che ci siano più veri scrittori trenta o quarantenni oggi, di quanti ce ne fossero quando ho cominciato io. C’è più vivacità, più azione. E più diversità di voci. E questo forse perché non c’è una guerra a tenerli insieme. Lei sta pensando alla crema, ai Bellow, Mailer, Styron, Vonnegut e Cheever, che la guerra ha tirato su, in un certo senso. Ma non sa quanti loro coetanei oggi sono dimenticati. Aspetti vent’anni e vedrà quanti nomi di questa nostra epoca saranno ancora in circolazione».
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