Armando Massarenti
''Il Sole 24 ore - Domenica'', 2 febbraio 2014
È stata una piacevole sorpresa ascoltare, domenica scorsa, durante la bella (anche perché assai poco retorica) cerimonia del Bagutta, dalla voce di uno dei due poeti premiati, Maurizio Cucchi (autore di Malaspina, Mondadori; l'altro è Valerio Magrelli, con Geologia di un padre, Einaudi), i versi di una sua poesia, che contiene la citazione di un celebre astrofisico, Stephen Hawking: «Non so perché rimango fermo,/ attratto da queste placide immagini / multiple di micromondi in abbandono, / senza presenza umana, dove ogni cosa, / ogni dettaglio è oggetto, è specchio, / specchio di noi, del nostro / esserci, del nostro transito ignoto, / gioioso sforzo o lamento. Intanto // mando a memoria tra armonia e disagio / queste parole del cosmologo lucente / tra buio e spazio: "Noi siamo solo / una varietà evoluta di scimmie / su un pianeta secondario di una stella / insignificante. Ma siamo in grado / di capire l'universo, e questo / ci rende molto, molto speciali"».
La citazione conferma l'attenzione dei poeti e dei letterati di oggi verso ciò che dicono gli scienziati, sapendo che è nei dipartimenti di astrofisica o di genetica che, come ebbe a dire qualche anno fa George Steiner, «la creatività spesso ferve assai più che in quelli di letteratura». «Capire l'universo» implica grande immaginazione e la capacità di pensare a mondi e realtà possibili. E implica dispute accese, come quella raccontata in La guerra dei buchi neri (Adelphi, 2009) da un altro grande fisico, Leonard Susskind; e cambi di rotta, come quello dello stesso Hawking che nei giorni scorsi ha dichiarato di aver cambiato idea proprio nella direzione auspicata da Susskind. Quarant'anni fa, nel 1974, Hawking calcolò che i buchi neri non sono del tutto neri: possono liberare nello spazio energia e particelle, in quantità inversamente proporzionale alla massa, portando a una sorta di evaporazione, e persino esplodere. Ma se i buchi neri «evaporano», emettono cioè radiazione termica, e rimpiccioliscono nel corso del processo sino a scomparire, emerge una domanda cruciale, sulla quale si dividevano i due scienziati: l'informazione che essi inghiottono riemerge oppure no quando il buco nero scompare? È questo il senso dell'esperimento mentale che Hawking propose nel 1976: immaginò di gettare una certa quantità di informazione – un libro, un computer, una particella elementare – in un buco nero. I buchi neri sono trappole definitive, sentenziò: «quell'informazione viene cancellata per sempre». Per un fisico quantistico come Susskind, questa era una dichiarazione di guerra. Hawking «minacciava di distruggere l'intero edificio della fisica moderna, facendone saltare le fondamenta», mettendo a rischio cioè «la legge basilare della natura» secondo cui nell'informazione nulla si crea e nulla si distrugge. Dunque i casi erano due: «o Hawking aveva torto, o il trisecolare pilastro della fisica non reggeva più». Bene, ora che Hawking ha cambiato idea, in un processo di revisione in realtà già in atto dal 2004, sostenendo che ciò che entra in un buco nero in qualche modo, sia pure notevolmente mutato, comunque ne viene fuori, che morale ne possiamo trarre? Che la fisica è salva? O, soprattutto, che la scienza è meravigliosa perché è fatta da persone che sanno sempre tornare sui propri passi, sapendosi dare da se stesse torto?
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