Vento del Nord
Francesca Montorfano
“Corriere della Sera“, 21 febbraio 2014
Veniva dai paesaggi innevati, dai fiordi, dalle foreste, da quegli spazi reali e fantastici popolati di miti e di simboli che si aprivano al sogno e al mistero dell’esistenza, l’ondata di arte e pittura che tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento avrebbe segnato profondamente l’esperienza culturale italiana. Ossessione nordica, l’aveva definita nel 1901 il grande critico Vittorio Pica, sintetizzando con straordinaria efficacia quel fenomeno, quasi una malia, che stava caratterizzando le prime Biennali veneziane, con largo spazio riservato a Böcklin, indiscusso maestro che aveva introdotto questo nuovo filone artistico in atmosfere mediterranee, o a Klimt, a cui nel 1910 verrà dedicata addirittura una personale. Se fino a quel momento a svolgere il ruolo da protagonista nel panorama europeo era stata la Francia, ecco che adesso l’asse si spostava e proprio gli artisti nordici apparivano più svincolati da seduzioni ottocentesche e ingessature accademiche, liberi di esplorare i territori della modernità, di sperimentare soluzioni tra le più avanzate e dirompenti.
Sarà oggi la mostra di Palazzo Roverella, curata da Giandomenico Romanelli, a raccontare attraverso più di 150 opere tra dipinti, incisioni, manifesti delle prime Biennali, fotografie, illustrazioni, tutta l’importanza di questo momento della grande arte europea, ricco di infinite sfaccettature e di reciproche corrispondenze. «Furono scelte, quelle veneziane, fatte a ragion veduta, che determinarono orientamenti critici e di gusto, che seppero evitare le secche del tardo impressionismo e guardare al di là delle Alpi, ripercorrendo la linea culturale delle Secessioni, di Vienna e di Monaco, di Lipsia e di Darmstadt fino al Grande Nord, al mondo scandinavo, al filone simbolista esoterico dei fiamminghi, agli scozzesi della scuola di Glasgow e agli italiani che con sensibilità e linguaggi diversi ne hanno subito la fascinazione e condiviso le ricerche, De Chirico e De Carolis, Sartorio e Laurenti, Tito e Casorati, Tosi, De Maria o Wolf Ferrari tra i tanti. Né va dimenticato che l’Italia, da poco unificata, sentiva forte il richiamo di esperienze artistiche di carattere nazionale, come quelle nordiche, che avevano saputo recuperare un’identità comune attraverso gli antichi miti, le saghe popolari, le radici culturali», sottolinea Romanelli.
Ad aprire il percorso della mostra, a far entrare la dimensione onirica sulla scena, sarà Arnold Böcklin, con quei suoi paesaggi notturni avvolti dal silenzio, con quella «Rovina sul mare» così inquietante e misteriosa e quell’immaginario popolato di satiri e ninfe, di tritoni e nereidi appartenenti a un’età dell’oro ancora primigenia, densa di valenze e suggestioni. Una lezione che fruttificherà in Max Klinger, in Diefenbach con i suoi universi allucinati e visionari, negli ambienti esoterici di Khnopff, nelle isole dell’italiano Wolf Ferrari, artista raffinato attento anche a citazioni klimtiane o nella celebre «Lotta di centauri» di un De Chirico non ancora metafisico.
Da interpretazione simbolica o verista adesso il paesaggio cambia, si fa trascrizione dell’interiorità, di stati d’animo e di sentimenti, mentre la pittura appare più sintetica, essenziale, seguendo il richiamo di Pont-Aven, dei nabis e dei fauves, come in Akseli Gallen- Kallela, cui la Biennale del 1914 dedicherà una monografica, in Leo Putz, in Cuno Amiet, in Tullio Garbari o Gino Rossi. Se anche gli interni domestici mutano, diventando fiaba del quotidiano, poesia del silenzio fatta di luci e atmosfere sommesse, sarà l’immagine femminile a denotare il rinnovamento più radicale, uscendo dai ristretti confini dell’atelier per immergersi nella natura o per dar voce a ciò che la parola non riesce ancora, ai desideri, alle pulsioni più nascoste e inconfessabili dell’inconscio, prendendo le sembianze di quella femme fatale di provocante sensualità che rivolge lo sguardo allo spettatore nel celeberrimo «Peccato» di von Stuck.
Ancora capolavori carichi di pathos, virtuosismi dai forti contrasti luminosi e i neri profondi degli inchiostri, sono le opere che chiudono il percorso, il ciclo del «Guanto» di Klinger e quello dei «Misteri» di Alberto Martini, le incisioni di Luigi Bonazza e gli altissimi esiti di Munch, che esordirà in Biennale proprio attraverso la grafica, anch’essa teatro dei suoi incubi e delle sue lacerazioni interiori.
Quelli che la verità sta nel bianco e nero
Klinger, Kubin, Martini: il disegno che dialoga con il soprannaturale
A ben guardare, l’ossessione nordica che secondo il critico Vittorio Pica aveva travolto gli artisti italiani, sedotti dalle avanguardie di matrice germanica, andava letta al contrario. La vera ossessione nordica fu infatti la passione travolgente che prese i popoli germanici per il mondo antico. Un’ossessione, appunto, fu per esempio quella di Heinrich Schliemann per Troia, che portò l’antiquario tedesco a investire la vita e i propri beni nella ricerca dell’antica città cantata da Omero. Le scoperte archeologiche, gli studi di filologia, i repertori sulle genealogie degli dei e dei miti, tutto questo materiale di conoscenze sul mondo greco fu messo insieme proprio da studiosi di area germanica, tanto che ancora oggi il tedesco è lingua imprescindibile per chi studia l’antichità. Dunque fu la Grecia, attraverso la Germania, a produrre quel nuovo e perturbante repertorio di misteri, dimensioni ignote, mostri e inquietudini che poi affascinò, di ritorno, i nostri artisti italiani.
I centauri e le sirene di Arnold Böcklin nonché le sue isole con i cipressi che crescono in Grecia e in Italia; le Meduse, le Arpie e i Sileni di Franz von Stuck; i boschi e i fiumi coperti di neve di Akseli Gallen Kallela trovavano un’eco nel panteismo greco di fauni e ninfe. Tale mondo di simboli e di creature ibride non solo univa per affinità elettive il Nord al Sud, ma attraverso la Germania si calava senza dissonanze nella contemporaneità e infine compiva il suo viaggio di ritorno del «grand tour europeo» con i nostri De Chirico o Alberto Martini. Un’ossessione circolare, insomma, che passava dall’uno all’altro di questi artisti che fra il sentimento della modernità e il culto del passato sentivano un legame indissolubile.
I più immaginifici fra questi spiriti inquieti prediligeranno il disegno e l’incisione, il bianco e nero, come è stata appunto intitolata una sezione della mostra di Rovigo. Secondo Fernand Khnopff, per esempio, l’artista era un vate, un eletto, e proprio per questo al medium artistico della pittura preferiva il disegno, privo com’era di mediazione con le forze soprannaturali e in diretto contatto con la dimensione onirica e mentale.
Lo stesso rapporto che intratteneva col disegno Alfred Kubin, uno dei più geniali disegnatori del fantastico, il quale riusciva a liberarsi delle allucinazioni che lo tormentavano solo fissandole con la matita. Max Klinger, la cui produzione grafica gli ha dato maggior gloria di quella come pittore o scultore (fu lui a realizzare il monumento a Beethoven per la XIV mostra della Secessione per la quale Klimt creò invece il celebre «fregio di Beethoven») scrisse addirittura un trattato teorico in lode del bianco e nero. «Griffelkunst» (L’arte dello stilo), questo il titolo del saggio, analizza tutte le tecniche su carta che non fanno ricorso alla tavolozza. La pittura e il colore, secondo Klinger, esaltano il regno del visibile, la bellezza, la vita, la luce, lo splendore della natura. Il disegno, invece, dà forma agli aspetti oscuri dell’esistenza, ai suoi misteri e agli incubi interiori. Il disegnatore, infatti, non riproduce la realtà vista dall’occhio, ma quella della fantasia, che non esiste se non nella propria testa. Ecco perché i lavori con lo stilo sono per lo più visioni notturne o allegoriche come il sogno raccontato nel ciclo di dieci disegni (tre anni dopo eseguiti anche a incisione) intitolato «Fantasie di un guanto trovato, dedicate alla donna che lo perse». Si tratta di una narrazione illogica e surreale del ritrovamento di un guanto femminile da parte di Klinger su una pista di pattinaggio a Berlino; nel terzo foglio il protagonista si addentra nel regno dei sogni e il guanto, di volta in volta piccolo, esageratamente grande, attivo o passivo, diventa il protagonista di avventurosi episodi notturni che terminano al mattino, quando il guanto viene ritrovato su un tavolino.
Anche uno dei nostri disegnatori più visionari, Alberto Martini, grande ammiratore di Klinger, usò la china per illustrare i racconti di Edgar Allan Poe o l’«Amleto» di Shakespeare, ovvero testi che aprono al regno del noir e della follia. «La penna — scriveva Martini — è il bisturi dell’arte del disegno, è uno strumento acuto difficile come il violino». Ciò che legava questi amanti del bianco e nero era, infatti, il culto per il virtuosismo e coloro che lo praticavano in grande solitudine si sentivano una confraternita di eletti connessa nei secoli da sentimenti di filiazione.
Non affermava forse Eraclito, uno dei sacerdoti dell’ossessione nordica, che «Il Sovrano che si rivela nell’oracolo di Delfi non dice e non nasconde, ma fa uso di segni»?
L’altrove mediterraneo di Böcklin (che amava litigare con Wagner)
E Savinio fu «arbitro» tra le isole dei morti e la campagna romana
Emanuele Trevi
Sono in grado di testimoniare su un episodio tardivo di «ossessione nordica». Era la fine degli anni Settanta, il fondo più buio del pozzo degli Anni di piombo, quando alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma venne allestita una piccola mostra con la celebre serie del Guanto di Max Klinger. In tantissimi abbiamo visitato quella saletta come se fosse stata la strabiliante porta d’accesso al sogno di un altro, che però poteva anche essere, catturato chissà come dalla mano di quell’infallibile disegnatore, uno degli infiniti sogni che, pur fatti da noi stessi, si dissolvono senza rimedio al risveglio. Tra le vittime del sortilegio, va ricordato almeno Francesco De Gregori, che alle avventure del più celebre guanto della storia dell’arte dedicò addirittura una delle sue canzoni.
Se erano stati capaci di ossessionare a varie riprese i diffidenti pubblici meridionali, questi grandi maestri del Nord erano stati a loro volta ossessionati irrimediabilmente dal Sud. È questa reciprocità il segreto della storia di Klinger e anche di quella del più grande di tutti, Arnold Böcklin, che a Roma trovò anche moglie e finì i suoi giorni nella campagna di Firenze, dopo aver reinventato, a colpi di tempera all’uovo e resina di ciliegio, tutta una mitologia pagana intesa come suprema sintesi dell’umano e del bestiale — non a caso, il centro propulsivo dell’immaginazione del maestro svizzero è il centauro. In virtù di uno di quei semplici casi che danno ai posteri l’occasione di ricamarci un po’ sopra con la fantasia, Böcklin (nato nel 1827) veniva da Basilea come il grandissimo Johann Jakob Bachofen, l’autore del Matriarcato , labirintica e geniale ricostruzione del mondo antico pareggiata solo, per l’energia della visione e la profondità delle intuizioni, dalla Nascita della tragedia di Nietzsche.
Cresciuti in un severo ambiente luterano, nel quale la stessa parola «mitologia» poteva suonare come un sinonimo di «peccato», sia il pittore che il filosofo trovarono probabilmente la loro felicità nello staccarsi dalle origini, proiettandosi con tanto slancio nell’altrove mediterraneo da farne qualcosa di completamente estraneo ai classicismi consolidati, portassero pure la firma di Goethe e Winckelmann. Furono in pochi a capire la portata dell’esperimento. In Francia si discuteva molto delle sproporzioni anatomiche del busto dei centauri (ma Böcklin affermò con fierezza: «io non dipingo per i francesi!»). Come Böcklin, anche Bachofen, più vecchio di una decina d’anni, amava la campagna romana più della stessa Roma, e se il primo sembra scrivere poemi mentre dipinge, il secondo dà l’impressione di utilizzare la sua sterminata erudizione come i pennelli e i colori di uno strabiliante affresco. Niente a che vedere, però, con la fusione delle arti predicata da Wagner. Alberto Savinio ha profuso tutta la sua inimitabile ironia nel racconto dei tre disastrosi incontri avvenuti tra il musicista e il pittore.
Una volta Böcklin venne invitato da Wagner ad assistere a un’esecuzione per piano del Crepuscolo degli dei. Suonava Rubinstein, ma Wagner capì subito che lo svizzero si annoiava a morte, e saltò su esclamandogli in faccia: «Vedo che non vi intendete affatto di musica!». E Böcklin, di rimando: «Più di quanto voi v’intendete di pittura». Bisogna leggere la biografia che Savinio ha dedicato a Böcklin gustandone ogni singola frase. Apparve nel 1943, come secondo capitolo di una raccolta intitolata Narrate, uomini, la vostra storia .
Nel 1943 gli uomini di lingua tedesca che si aggiravano per l’Italia erano nient’altro che orde di assassini e depredatori. Savinio guarda alla moda di Böcklin con nostalgia per il tempo dei nonni, quando la vita poteva ancora sembrare un bel gioco. Nelle loro cornici liberty, le riproduzioni dell’«Isola dei morti» figuravano immancabilmente nei salotti accanto al pianoforte e al busto di Beethoven. Cercando le ultime tracce di quel mondo scomparso, Savinio bussa alla porta della casa romana di un certo professor Pallemberg, genero di Böcklin. Nel salotto del villino sulla via Nomentana è appesa una testa di bambino. Non è un’opera del maestro, ma di uno dei suoi tanti figli, anch’esso pittore. La vicinanza di un prosaico termosifone ha sconciato il quadro di brutte macchie. Sembra di essere arrivati davvero, in quella sera di guerra, a un capolinea della memoria e del gusto. Poi inizia la storia dell’arte, che è tutta un’altra storia.
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