Si è appena concluso il quarto anno scolastico dopo il "Riordino Gelmini",
nel 2014 si diplomeranno i primi ignoranti autorizzati.
La globalizzazione ci ha consentito l'accesso a molte informazioni,
ma non è sinonimo di competenze: è necessaria la scuola
CARLO PETRINI
"La Repubblica", 1 agosto 2013
Dalle mie parti, per indicare qualcuno su cui non è possibile fare affidamento, sulla cui opinione è meglio non contare, si dice che "non sa da che parte è girato", ed espressioni simili ci sono in altre lingue, come lo spagnolo "no saben donde están parados". Pare che il buon senso popolare opponga un'inappellabile diffidenza verso chi non si sa orientare nello spazio. Non conosce i posti in cui si trova, non riconosce i riferimenti di base quando li vede.
Si è appena chiuso il quarto anno scolastico dopo il cosiddetto "Riordino Gelmini" e il prossimo anno sarà quello in cui si diplomeranno i primi ignoranti autorizzati in fatto di geografia. È una cosa a cui penso spesso nei miei tanti viaggi. Penso a quanto oggi è possibile sapere e conoscere, di un territorio, anche senza spostarsi. Però...
Internet certamente è una risorsa preziosa, la globalizzazione ci ha consentito l'accesso a una mole di informazioni che a volte persino intimidisce. Ma avere l'accesso alle informazioni non significa, di per sé, acquisire competenze. Per quelle ci vuole un processo più lungo e possibilmente ben guidato, che si chiama, genericamente, scuola. E invece molti studenti, e purtroppo ormai anche tanti adulti, quando si parla di geografia dicono cose tipo: "Perché studiare geografia? Quello che hai bisogno di sapere te lo può dire un navigatore satellitare".
Uno degli effetti indesiderati di un'acritica tendenza alla sempre maggiore velocità è una certa qual cialtronaggine del pensiero, che porta a considerare appaiabili concetti e idee che nei fatti sono ben distinti. Occorre ormai un certo sforzo intellettuale per ricordarsi costantemente che c'è differenza tra parlare (o scrivere) e comunicare, tra presenziare e partecipare, tra spostarsi e viaggiare. Forse è proprio a causa della forzata sinonimia tra questi ultimi due termini che l'allora ministro per l'Istruzione, Maria Stella Gelmini, decise, nel 2008, di varare il cosiddetto "riordino" che, a partire dal 2009, fece sostanzialmente sparire l'insegnamento della geografia dalle scuole superiori.
Detto così forse è fuorviante e potrebbe sembrare che il provvedimento non sia stato guidato da precisi criteri. Invece si sono fatti dei distinguo, e vale la pena sottolinearli. Licei: l'insegnamento della geografia non esiste più in forma autonoma; è accorpato con "storia" (3 ore settimanali), ed è affidato a non specialisti. Istituti tecnici commerciali: la materia, che prima si studiava solo nel triennio, ora si studia solo nel biennio. Quindi un anno in meno. Nel triennio si fa poi "Relazioni internazionali" e "Geopolitica", a cura degli insegnanti di diritto e di Economia aziendale. Istituti tecnici e professionali: non si fa più geografia nel biennio (che ora però è parte dell'obbligo scolastico). Istituti nautici, professionali per il turismo e alberghieri: udite udite, l'insegnamento della geografia è stato semplicemente eliminato.
È da quest'ultima informazione che parte lo sbigottimento: siamo un paese che regge una buona parte della sua economia sulle produzioni agroalimentari di qualità, le quali sono legate a specifici territori, e sia per questa peculiarità sia per lo straordinario patrimonio artistico siamo anche un paese che basa sul turismo un'altra bella fetta di Pil, e noi cosa facciamo? Perché lavoriamo per far sì che le prossime generazioni di operatori turistici e alberghieri non solo non colgano le peculiarità culturali di chi arriva, ma non sappiamo nemmeno presentare quelle dei territori in cui lavorano? E come se non bastasse, sforneremo anche liceali ignoranti in geografia, i quali andranno all'università e poi faranno carriera e poi alcuni di loro diventeranno ministri, magari dell'Agricoltura, o dei Beni culturali.
E a proposito di ministeri: più o meno nello stesso momento in cui la Gelmini varava il riordino, nasceva, ad opera del ministero dell'Agricoltura, la Rete rurale nazionale, un coordinamento di attori istituzionali e della società civile che porta avanti la riflessione sullo sviluppo rurale partendo dal principio sacrosanto che non esiste una ricetta unica, ma ce ne sono tante quanti sono i territori, con le loro caratteristiche fisiche e culturali. Era, ed è, una buona idea; peccato che a minarla alla base stessa del suo senso sia proprio l'opera di un ministro del medesimo governo.
Chi si occupa di agricoltura e di ruralità sa, infatti, che i territori si raccontano attraverso i prodotti, ma quei racconti bisogna saperli ascoltare, bisogna conoscere la lingua che i prodotti parlano. È una lingua fatta di climi, composizioni del suolo, storie economiche e sociali, guerre, religioni. Il successo dei mercati contadini, così come quello di eventi come il Salone del Gusto o Cheese sta nel fatto che l'assaggio di un prodotto, la conversazione con il suo artefice sono le chiavi per aprire porte di territori da esplorare. Ma come si potrà in futuro raccontare le peculiarità dei pascoli lucani, se chi ascolta farà fatica a ricordare dove si trova la Basilicata?
La nuova ministra per l'educazione vorrà porre rimedio a quel "riordino"? Si torni a studiare la geografia nelle scuole, e si affidi questo insegnamento a docenti preparati. Perché di gente che "non sa da che parte è girata" ne abbiamo intorno a sufficienza.
Vale per la geografia, e per il suo attuale infermo destino scolastico nel nostro Paese, la stessa sorte toccata al continente americano in seguito alla conquista romana del Mediterraneo. E per la stessa ragione. Spiega Lucio Russo nel suo ultimo, fulminante libro (L'America dimenticata. I rapporti tra le civiltà e un errore di Tolomeo, Mondadori Università, 2013) che in epoca ellenistica si faceva coincidere le Isole Fortunate, termine occidentale del mondo conosciuto, con le Piccole Antille, mentre due secoli dopo Cristo Tolomeo le sposta in corrispondenza delle Canarie, contraendo in tal modo di molto le dimensioni della sfera terrestre. Con il crollo di Cartagine la conoscenza dell'Atlantico svanisce, argomenta Russo: certo, ma non basta. Quel che a Tolomeo più che ai suoi predecessori, a partire da Eratostene, importava era l' esaustiva, sistematica riduzione del globo (modello che implica un soggetto mobile e perciò la visione processuale della realtà) a una mappa, a una descrizione fondata sull'immobilità del soggetto e sulla simultaneità dell'informazione, resa disponibile a colpo d'occhio. Senza tale radicale mutamento del regime cognitivo sarebbe stato difficilmente concepibile il repentino e arbitrario trasferimento tolemaico del limite del l'ecumene, perché soltanto su di una mappa tutti i nomi sono nomi propri, e la relazione biunivoca tra il nome e la cosa riesce, in assenza di memoria, assolutamente arbitraria e perciò normativa. Ma tra Eratostene e Tolomeo un'altra geografia era stata possibile, e l'averlo dimenticato equivale alla scomparsa del limite americano dalla conoscenza classica occidentale: in ambedue i casi si sconta l'effetto della subordinazione del discorso geografico alla totalitaria logica della rappresentazione cartografica.
Di Eratostene, lo scienziato che tre secoli prima di Cristo aveva calcolato con straordinaria precisione le dimensioni della Terra, oggi non sapremmo quasi più niente se non fosse stato bersaglio delle critiche di Strabone, all'inizio dell'era volgare. E proprio perché di tali critiche si è persa memoria ci si meraviglia (come ancora in queste settimane sui giornali ) per l'assurda espulsione degli insegnamenti geografici, persino dagli istituti tecnici nautici, voluta quattro anni fa dal "riordino" della scuola secondaria promosso dall'allora ministro Gelmini. Eratostene si era comportato non da geografo ma da astronomo secondo Strabone perché, limitandosi a prendere le misure del nostro pianeta aveva trattato la dimora umana come fosse un qualsiasi altro corpo celeste. Al contrario, il problema di Strabone consisteva in un programma che Wittgenstein avrebbe perfettamente compreso: la descrizione di quella parte di Terra per la quale si possedeva il linguaggio perché concretamente percorsa e praticata, agita. Per Eratostene e poi per Tolomeo il mondo era insomma uno spazio: parola che deriva dall'antica misura lineare greca, lo stadio, e implica in ultima analisi la sottomissione dell'intera faccia della Terra a un unico criterio standard di misurazione, dunque già include, attraverso la mediazione cartografica, l'avvento di quel mercato che a Marx appunto apparirà come «il regno dell'equivalenza generale». Per Strabone invece, che pure conosce le distanze e la loro importanza, il mondo restava, come già per Aristotele, un insieme di luoghi, di parti l'un l'altra irriducibili perché ciascuna dotata di valori propri e qualità specifiche. E la geografia serviva proprio a trasformare la mappa in un discorso, in una versione alternativa, e perciò potenzialmente critica, rispetto a quella spaziale, e perciò apodittica, della realtà. Perciò non a caso nella Germania "tra riforme e rivoluzione" del primo Ottocento sarà proprio Strabone il geografo di riferimento dell'Erdkunde, del sapere geografico funzionale all'avvento al potere dell'elemento borghese, della società civile: sapere che, contrapposto alla Geographie di marca aristocratico-feudale, per Alexander von Humboldt era appunto la «teoria critica della Terra» e riconosceva nella «filosofia, la storia, il linguaggio» le sue armi, contro quella che Carl Ritter chiamava «la dittatura cartografica», il pensiero unico spaziale dei funzionari della «corte della vecchia verità».
L'intera modernità sarà però costruita, alla fine, sulla trasformazione della Terra in un'unica, gigantesca mappa, e per sincerarsene basta far mente alle tre caratteristiche di cui ogni territorio statale deve essere costitutivamente dotato: deve risultare tutto di un pezzo, tutto della stessa sostanza (di cittadini che condividano la stessa cultura), deve comporsi di parti orientate nella medesima direzione (di qui l'esistenza di una capitale, tendenzialmente al centro, il punto verso il quale tutto lo stato è funzionalmente voltato). Come dire che il territorio statale dev'essere geometrico, perché le tre proprietà appena richiamate, la continuità l'omogeneità e l'isotropismo, sono appunto quelle che per Euclide definiscono la natura geometrica del l'estensione. Dunque il mondo davvero diventa, in epoca moderna, un'immane mappa, un gigantesco spazio, suddiviso in meno di duecento formazioni spaziali, cioè statali. Ed è questo il motivo per cui l'idea che abbiamo del sapere geografico compiuto coincide con l'immagine cartografica. Se fosse soltanto così gli estensori della legge Gelmini avrebbero ragione anche nel caso della geografia: perché studiarla se per fare il punto nave basta adesso affidarsi alla navigazione satellitare? Il problema è che affidarsi a quest'ultima, e più in generale all'intreccio tra telematica, cibernetica e informatizzazione da cui sempre più dipende oggi il funzionamento del mondo, comporta appunto il riconoscimento della crisi irrimediabile della riduzione spaziale, e perciò cartografica, della realtà: quello al cui interno la distanza fisica lineare risulta la relazione decisiva.
Le immagini del web: mappe solo in apparenza
Franco Farinelli
Domenica – Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2013
Di Eratostene, lo scienziato che tre secoli prima di Cristo aveva calcolato con straordinaria precisione le dimensioni della Terra, oggi non sapremmo quasi più niente se non fosse stato bersaglio delle critiche di Strabone, all'inizio dell'era volgare. E proprio perché di tali critiche si è persa memoria ci si meraviglia (come ancora in queste settimane sui giornali ) per l'assurda espulsione degli insegnamenti geografici, persino dagli istituti tecnici nautici, voluta quattro anni fa dal "riordino" della scuola secondaria promosso dall'allora ministro Gelmini. Eratostene si era comportato non da geografo ma da astronomo secondo Strabone perché, limitandosi a prendere le misure del nostro pianeta aveva trattato la dimora umana come fosse un qualsiasi altro corpo celeste. Al contrario, il problema di Strabone consisteva in un programma che Wittgenstein avrebbe perfettamente compreso: la descrizione di quella parte di Terra per la quale si possedeva il linguaggio perché concretamente percorsa e praticata, agita. Per Eratostene e poi per Tolomeo il mondo era insomma uno spazio: parola che deriva dall'antica misura lineare greca, lo stadio, e implica in ultima analisi la sottomissione dell'intera faccia della Terra a un unico criterio standard di misurazione, dunque già include, attraverso la mediazione cartografica, l'avvento di quel mercato che a Marx appunto apparirà come «il regno dell'equivalenza generale». Per Strabone invece, che pure conosce le distanze e la loro importanza, il mondo restava, come già per Aristotele, un insieme di luoghi, di parti l'un l'altra irriducibili perché ciascuna dotata di valori propri e qualità specifiche. E la geografia serviva proprio a trasformare la mappa in un discorso, in una versione alternativa, e perciò potenzialmente critica, rispetto a quella spaziale, e perciò apodittica, della realtà. Perciò non a caso nella Germania "tra riforme e rivoluzione" del primo Ottocento sarà proprio Strabone il geografo di riferimento dell'Erdkunde, del sapere geografico funzionale all'avvento al potere dell'elemento borghese, della società civile: sapere che, contrapposto alla Geographie di marca aristocratico-feudale, per Alexander von Humboldt era appunto la «teoria critica della Terra» e riconosceva nella «filosofia, la storia, il linguaggio» le sue armi, contro quella che Carl Ritter chiamava «la dittatura cartografica», il pensiero unico spaziale dei funzionari della «corte della vecchia verità».
L'intera modernità sarà però costruita, alla fine, sulla trasformazione della Terra in un'unica, gigantesca mappa, e per sincerarsene basta far mente alle tre caratteristiche di cui ogni territorio statale deve essere costitutivamente dotato: deve risultare tutto di un pezzo, tutto della stessa sostanza (di cittadini che condividano la stessa cultura), deve comporsi di parti orientate nella medesima direzione (di qui l'esistenza di una capitale, tendenzialmente al centro, il punto verso il quale tutto lo stato è funzionalmente voltato). Come dire che il territorio statale dev'essere geometrico, perché le tre proprietà appena richiamate, la continuità l'omogeneità e l'isotropismo, sono appunto quelle che per Euclide definiscono la natura geometrica del l'estensione. Dunque il mondo davvero diventa, in epoca moderna, un'immane mappa, un gigantesco spazio, suddiviso in meno di duecento formazioni spaziali, cioè statali. Ed è questo il motivo per cui l'idea che abbiamo del sapere geografico compiuto coincide con l'immagine cartografica. Se fosse soltanto così gli estensori della legge Gelmini avrebbero ragione anche nel caso della geografia: perché studiarla se per fare il punto nave basta adesso affidarsi alla navigazione satellitare? Il problema è che affidarsi a quest'ultima, e più in generale all'intreccio tra telematica, cibernetica e informatizzazione da cui sempre più dipende oggi il funzionamento del mondo, comporta appunto il riconoscimento della crisi irrimediabile della riduzione spaziale, e perciò cartografica, della realtà: quello al cui interno la distanza fisica lineare risulta la relazione decisiva.
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