2, 3, 5, 7, 11, 13, 17… il segreto (inviolato) di queste cifre vale milioni:
una proprietà che protegge tra l’altro i codici delle banche.
Ecco cosa succede nel mondo scientifico
Giulio Giorello
La Lettura - Corriere della Sera, 4 agosto 2013
Nella repubblica dei numeri (interi) ce ne sono alcuni «un po’ più uguali degli altri»: godono di proprietà che ne fanno una sorta di Stato nello Stato. Sono i numeri primi, quelli che sono divisibili soltanto per se stessi e per l’unità (ovvero, non possono essere ottenuti moltiplicando due numeri più piccoli): oltre ovviamente all’unità, tali sono 2, 3, 5, 7, 11, 13, 17, eccetera. Ma quanto possiamo spingerci avanti in questa lista? Già Euclide, nei suoi Elementi (Libro IX, Proposizione XX), aveva dimostrato che di numeri primi ce n’è un’infinità. E i matematici avevano imparato a sfruttare il fatto che ogni altro numero può venire espresso in modo essenzialmente unico come prodotto di primi, anche se questo «teorema fondamentale dell’aritmetica» compare esplicitamente soltanto nelle Disquisitiones Arithmeticae (1801) di Carl Friedrich Gauss, quando questo «principe dei matematici» dichiarava che esso andava dimostrato «per la dignità della scienza in sé». Oggi la difficoltà di trovare in tempi brevi i fattori primi di un numero intero sufficientemente grande assicura l’impenetrabilità dei codici crittografici che utilizziamo per proteggere alcuni dei nostri segreti più cari (a cominciare da quelli bancari).
I numeri primi creano problemi già con le somme. Nel 1742 Christian Goldbach sottoponeva al grandissimo Leonhard Euler l’ipotesi che ogni intero pari maggiore di 2 fosse esprimibile come la somma di due numeri primi. «Semplice, no?», direbbe Pippo. Ma su questa «congettura di Goldbach» si rompono ancora la testa i matematici di oggi. Aveva notato nel Novecento il britannico Godfrey Harold Hardy che il travaglio dei matematici in futuro non sarebbe mai venuto meno: «Ogni sciocco può porre questioni sui numeri primi alle quali il più saggio degli uomini non sa rispondere ». Due secoli prima il citato Euler, constatando la difficoltà di trovare «un qualche ordine nella successione dei numeri primi», concludeva che forse era «un enigma che la mente umana non sarebbe mai riuscita a penetrare». Eppure doveva compiere non poche incursioni nello Stato dei numeri primi, fornendo tra l’altro una nuova e ingegnosa dimostrazione della loro infinità. È in questo contesto che escogita una funzione che successivamente (1859) sarebbe stata battezzata «funzione zeta» da Bernhard Riemann. Quest’ultimo formulò una particolare ipotesi sul comportamento della funzione zeta, la cui soluzione avrebbe comportato la completa decifrazione di quell’ordine che Euler riteneva così sfuggente. Anche se negli ultimi centocinquant’anni sono stati ottenuti numerosi e importanti risultati parziali sul problema dei primi, l’ipotesi di Riemann rappresenta ancor oggi la sfida per eccellenza al talento dei matematici. Nel 1900 il tedesco David Hilbert, al Congresso Internazionale di Parigi, auspicava che in pochi anni gli sforzi congiunti della comunità scientifica ne sarebbero comunque venuti a capo nel tempo medio di una vita umana. Un secolo più tardi, l’italiano Enrico Bombieri dichiarava, con un’ironia diretta anche contro se stesso, che gli specialisti di teoria dei numeri dovrebbero vergognarsi perché hanno miseramente fallito! E l’ipotesi di Riemann ricompare nella lista dei sette «Problemi del Millennio» per ciascuno dei quali il Clay Mathematical Institute ha messo in palio un premio di un milione di dollari. Com’è noto, non c’è un Nobel per i matematici; ma essi possono sempre cullarsi nella speranza di vincere il Premio Clay, rispetto al quale impallidiscono i dollari della Medaglia Fields, che viene assegnata ogni quattro anni ai migliori matematici — ma alla condizione imprescindibile che non si siano superati i quarant’anni — e consta solo di diecimila dollari (nel 1974 è stata vinta da Bombieri appunto per i suoi risultati in teoria dei numeri).
Come diceva Hilbert, i problemi più significativi sono come ponti che collegano discipline matematiche apparentemente lontane fra loro. Inoltre, non ci sono solo le questioni di un’aritmetica ingannevolmente semplice, ma sfide lanciate da geometria, topologia, analisi, eccetera, per non dire di quelle che emergono dalla fisica matematica. Nella Medaglia Fields, accanto all’effigie del grande Archimede, è inciso un detto amato da colui che aveva ideato e organizzato il riconoscimento (John Charles Fields, 1936): «Trascendere le limitazioni umane e padroneggiare l’Universo». Non sono dunque questioni solo di soldi, ma di potere. Però, la matematica ci dà una lezione a un tempo di audacia e di modestia. Datemi un algoritmo e vi solleverò il mondo, potrebbe dire un Archimede del XXI secolo. Ma un conto è sapere che la soluzione di un problema esiste, un altro saperla calcolare in un numero finito di passi, un altro ancora che il trovarla superi enormemente la brevità della vita umana, anche se s’impiega il calcolatore più veloce del mondo.
Se usiamo la nostra carta di credito su Internet, procediamo in relativa sicurezza perché sappiamo che un eventuale malintenzionato, deciso a carpirci il numero e il Pin della carta, difficilmente riuscirà a mettere in atto questa delittuosa intenzione, in quanto dovrebbe impiegare un lunghissimo periodo di «tempo macchina» per violare il codice con cui tali informazioni sono criptate. Tecnicamente, i problemi più facilmente trattabili sono detti problemi «Polinomiali», ovvero di classe P. Ma, agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, Steven Cook, Richard Karp e Leonid Levin hanno definito un’ulteriore classe di problemi noti come «problemi NP» (Nondeterministic Polynomial time).
Questa nozione non è facilmente spiegabile sulle pagine di un giornale; basterà dire che un problema NP è «quasi» trattabile come un problema P. La differenza è che un problema P ammette un metodo abbastanza rapido per trovare una soluzione; invece, per stare nella classe NP, un problema deve richiedere un tempo «rapido» per verificare che una pretesa soluzione sia quella giusta. Così, verificare una scomposizione di un numero intero, magari piuttosto grande, in fattori richiede conti che qualsiasi studente delle medie dovrebbe saper fare; invece, trovarne la scomposizione per esempio in fattori primi esige la potenza di un grande intelletto matematico o di un supercomputer, e si ritiene che sia un compito NP. Se si riuscisse a dimostrare che le classi NP e P coincidono, forse saremmo veramente i padroni dell’Universo, o almeno di una sua qualche traduzione in numeri. È un ottimismo, però, non condiviso da molti logici, matematici e informatici, che da quarant’anni si stanno arrovellando sul problema formulato da Cook, Karp e Levin (i primi due insigniti del prestigioso Premio Turing nei primi anni Ottanta; il terzo messo in galera come dissidente nell’ormai morente Urss).
Lo stesso occuparsi del problema, qualunque sia l’esito, è già una conquista, e un eventuale scacco nel ridurre la classe NP alla classe P genererà una ridda di nuove questioni, che funzioneranno più che come ponti e sentieri, da grandiose autostrade per esplorare inediti paesaggi della matematica e delle sue applicazioni. Il maestro dell’algebra al-Khwarizmi (780-850) ringraziava Allah «per il dono dei numeri», pur con tutti gli enigmi con cui si intreccia la loro lunga storia. Senza osare pronunciarci sulle recondite intenzioni dell’Onnipotente, «clemente e misericordioso», possiamo concludere con un verso di un poeta cinese dell’epoca T’ang: «Nel segreto sempre risplende il bianco sole». Ovvero, ogni problema contribuisce allo splendore dell’intelligenza.
Nessun commento:
Posta un commento