domenica 25 agosto 2013

Perché il popolo vuole «panem et circenses»



Maurizio Bettini

                                                       "La Repubblica", 11 agosto 2013

«Che fa il popolo di Remo?», si chiedeva Giovenale. «Un tempo assegnava comandi, fasci, legioni, ma da quando non si vendono più i voti, desidera solo due cose: il pane e il circo». Questo emistichio del poeta romano - panem et circenses - è divenuto una sorta di emblema. Evoca la degenerazione di un popolo pronto a cedere la propria libertà in cambio del divertimento a buon mercato: un fenomeno che oggi sembra più visibile che mai.
Questo motto di Giovenale ha fornito il titolo a uno dei capolavori della storiografia antica, Il pane e il circo di Paul Veyne, che Il Mulino ha appena ristampato.
Che cosa ha da offrire questo libro al lettore di oggi? Moltissimo. Veyne infatti non è soltanto un grande storico antico, è soprattutto uno studioso di straordinaria intelligenza. Come tale egli prende spesso spunto dal mondo greco e romano per affrontare problemi assai più generali, del tipo: che cos'è il lusso? che cosa vuol dire adorare qualcuno come un dio? com'è nata e cos'è la carità cristiana? Questo volume costituisce pertanto non solo un magistrale studio sul mecenatismo antico (tema quanto mai attuale, peraltro, in un periodo in cui a restaurare il Colosseo ci pensa non più lo Stato, bensì un privato), ma, più in generale, un manifesto di intelligenza critica: nel quale si riflette sul potere, sul denaro, sul patrimonio, sullo spettacolo, sul rapporto fra governati e governanti. Ciò detto, che cosa pensa Veyne del fatidico motto di Giovenale? Dunque, una visione "di destra" del fenomeno panem et circenses, peraltro quella condivisa dal poeta stesso, vuole che in questo modo il popolo, immerso in un bieco materialismo, perda il senso della libertà. Una visione "di sinistra", invece, vuole che il facile divertimento distolga il popolo dalla lotta contro le disuguaglianze. Ed ecco entrare in campo l'intelligenza critica di Veyne. Entrambe queste visioni, spiega, presuppongono che, da un lato, chi detiene il potere operi sempre con astuzia machiavellica; dall'altro che il popolo aspiri spontaneamente a decidere delle proprie sorti, insomma a occuparsi di politica - e come tale, possa essere distolto da questa sua naturale tendenza solo tramite l'astuta somministrazione del divertimento. Salvo che il circo non era solo una macchinazione dell'imperatore, così come non si "spoliticizza" il proletariato semplicemente facendogli leggere riviste di gossip. Se queste non esistessero, argomenta Veyne, molte persone si annoierebbero, ma non necessariamente si dedicherebbero alla politica. Oppure si possono leggere riviste di gossip e, nonostante ciò, essere militanti. Il fatto è che la perdita del senso civile, o del desiderio di libertà, ha cause molto più variee profondeche non siano la semplice offerta di divertimento.
Tant'è vero che il circensis a volte funziona, ma a volte no: è fallito nella Firenze del Quattrocento, così come ai nostri giorni in Brasile, dove migliaia di persone sono scese in piazza addirittura contro l'equivalente odierno del circo, il calcio. Il sentimento civile non è spontaneo, prima di perderlo è necessario esserselo guadagnato; e prima di dimenticarlo, bisogna che ci sia stato insegnato. Ecco dunque una delle innumerevoli lezioni che possiamo trarre da questo libro: mai cedere alla lusinga dei motti o dei luoghi comuni, che non spiegano nulla, proprio perché sembrano spiegare tutto.

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