Melania Mazzucco
"La Repubblica", 11 agosto 2013
Cosa c’è di più umile e feriale di un’aringa? Nuota in tutti gli oceani. Brutta e bistrattata, da viva non vale niente. Ma da morta è utile, quasi necessaria. La sua carne stopposa sa di sale o di fumo. La mangiano i poveri d’Europa, e infatti trovi aringhe sorelle di queste nelle taverne dei pittori del ‘600. Ignara, l’aringa ha fatto ricchi gli olandesi. Dicono che Amsterdam sia costruita sulle lische di aringa: i pescatori e i commercianti le devono le loro fortune.
I pittori non hanno dipinto solo santi, eroi, cose belle e azioni nobili. Anche le più irrilevanti. Il primo è stato il greco Pirèico, citato da Plinio nella Storia Naturale. Dipingeva quadretti di “cose sordide”: cibi, utensili, animali. Questi compaiono anche nelle opere del Medioevo e del ‘400, ma una pernice morta deve aspettare Jacopo de’ Barbari nel 1504 per divenire soggetto di un quadro. E il genere della ‘natura morta’ fatica ad affrancarsi dal pregiudizio classicista che la relega al gradino inferiore dell’arte. Tra i maestri che riproducono con angosciante verosimiglianza tranci di carne, verdure appassite, selvaggina in carniere, molti sono olandesi. Come van Gogh che - pur essendo venerato soprattutto per i ritratti, i paesaggi, gli abbacinanti campi di grano, i cipressi e i girasoli - si è spesso dedicato alla natura morta. Ha raffigurato cipolle, patate, scope, ombrelli, pere, caraffe, pentole, boccali di birra, pipe, caffettiere. Oppure scarpe sformate, con le suole chiodate e i lacci esausti, e sedie di legno grezzo, con l’impagliatura in briciole. Stadio estremo della materia. Oggetti d’uso quotidiano, consunti, che urlano sulla tela la loro fatica di esistere. Ma niente mi commuove più di queste due legnose aringhe affumicate, comprate in una bottega di Arles da un uomo che disperatamente si aggrappava alla pittura per dimostrare al mondo e a se stesso di essere ancora un artista.
Van Gogh le dipinse nel gennaio del 1889, appena dimesso dall’ospedale Hotel-Dieu - dove era stato ricoverato dopo il famigerato litigio con Gauguin, e la mutilazione dell’orecchio. Non guarito e, anzi, ancora incalzato da terrori di morte e voci persecutorie: però lucido, desideroso di normalità. Voleva erigere un argine contro la malattia che lo incalzava. Al fratello Theo scrisse di aver iniziato qualche natura morta per “ritrovare l’abitudine di dipingere”. Scelse qualcosa di semplice: piccolo formato, pochi colori.
Benché si identificasse coi ronzini dagli occhi tristi che tirano la carrozza dei signori, van Gogh ha dipinto pochi animali. Qualche mucca, buoi, pecore, farfalle, un martin pescatore, il cavallo della raccolta rifiuti. Invece, pittoricamente stimolato dalle squame argentate del dorso, o proprio dal loro destino ‘cristiano’ di cibo dei poveri e consolazione degli affamati, aveva già dipinto aringhe rosse simili a queste (a Parigi, nel 1886-87: una l’aveva scambiata con un tappeto). Ma in modo più convenzionale. Se il soggetto è lo stesso, il ‘motivo’ è cambiato. Stavolta le guarda da vicino, strappandole a ogni spazio naturalistico. Le aringhe sono posate su un cartoccio, a sua volta posato su un piatto di ceramica, e questo su una sedia.
I pittori non hanno dipinto solo santi, eroi, cose belle e azioni nobili. Anche le più irrilevanti. Il primo è stato il greco Pirèico, citato da Plinio nella Storia Naturale. Dipingeva quadretti di “cose sordide”: cibi, utensili, animali. Questi compaiono anche nelle opere del Medioevo e del ‘400, ma una pernice morta deve aspettare Jacopo de’ Barbari nel 1504 per divenire soggetto di un quadro. E il genere della ‘natura morta’ fatica ad affrancarsi dal pregiudizio classicista che la relega al gradino inferiore dell’arte. Tra i maestri che riproducono con angosciante verosimiglianza tranci di carne, verdure appassite, selvaggina in carniere, molti sono olandesi. Come van Gogh che - pur essendo venerato soprattutto per i ritratti, i paesaggi, gli abbacinanti campi di grano, i cipressi e i girasoli - si è spesso dedicato alla natura morta. Ha raffigurato cipolle, patate, scope, ombrelli, pere, caraffe, pentole, boccali di birra, pipe, caffettiere. Oppure scarpe sformate, con le suole chiodate e i lacci esausti, e sedie di legno grezzo, con l’impagliatura in briciole. Stadio estremo della materia. Oggetti d’uso quotidiano, consunti, che urlano sulla tela la loro fatica di esistere. Ma niente mi commuove più di queste due legnose aringhe affumicate, comprate in una bottega di Arles da un uomo che disperatamente si aggrappava alla pittura per dimostrare al mondo e a se stesso di essere ancora un artista.
Van Gogh le dipinse nel gennaio del 1889, appena dimesso dall’ospedale Hotel-Dieu - dove era stato ricoverato dopo il famigerato litigio con Gauguin, e la mutilazione dell’orecchio. Non guarito e, anzi, ancora incalzato da terrori di morte e voci persecutorie: però lucido, desideroso di normalità. Voleva erigere un argine contro la malattia che lo incalzava. Al fratello Theo scrisse di aver iniziato qualche natura morta per “ritrovare l’abitudine di dipingere”. Scelse qualcosa di semplice: piccolo formato, pochi colori.
Benché si identificasse coi ronzini dagli occhi tristi che tirano la carrozza dei signori, van Gogh ha dipinto pochi animali. Qualche mucca, buoi, pecore, farfalle, un martin pescatore, il cavallo della raccolta rifiuti. Invece, pittoricamente stimolato dalle squame argentate del dorso, o proprio dal loro destino ‘cristiano’ di cibo dei poveri e consolazione degli affamati, aveva già dipinto aringhe rosse simili a queste (a Parigi, nel 1886-87: una l’aveva scambiata con un tappeto). Ma in modo più convenzionale. Se il soggetto è lo stesso, il ‘motivo’ è cambiato. Stavolta le guarda da vicino, strappandole a ogni spazio naturalistico. Le aringhe sono posate su un cartoccio, a sua volta posato su un piatto di ceramica, e questo su una sedia.
Ma la parete, di un pallido viola (come nella Stanza dell’artista) è ridotta a un rettangolo rigato di pennellate verticali; la sedia di paglia giallognola e verdastra (la ‘sua’ sedia, già protagonista di un quadro) a una fitta tessitura di fili orizzontali. Le pennellate si susseguono “come le parole in un discorso o in una lettera”: van Gogh scrive dipingendo. Le aringhe sono due forme aguzze - le bocche asfittiche nel dolore dell’agonia, la pelle crostosa, le code secche, le scaglie rosse come braci. Il quadro è una sinfonia in giallo e viola, colori complementari. Benché van Gogh preferisse considerarsi un calzolaio e non un musicista di colori, sbalordisce la gamma di sfumature del giallo - oro vecchio, oliva matura, limone acido, burro fresco - che riesce a esibire in uno spazio così esiguo.
Ma i vicini di casa lo temevano e in 30 firmarono una petizione al Sindaco. Il ‘pazzo’ alcolista rappresentava una minaccia per donne e bambini: chiedevano il suo internamento. La polizia lo riportò all’ospedale, in isolamento, e mise i sigilli alla Casa Gialla. Le Aringhe affumicate, insieme agli altri quadri iniziati dopo la crisi, rimasero sotto sequestro. Quegli inoffensivi pesci morti avevano contribuito a esasperare i gendarmi, perché ad Arles essi venivano soprannominati ‘aringhe’. Come se li avesse dipinti per schernirli.
Nella storia dell’arte sono passate in leggenda le inimicizie tra i pittori. Le cattiverie, le rivalità che opposero Bramante e Michelangelo, Tiziano e Tintoretto, Caravaggio e Baglione, Lanfranco e Domenichino, Picasso e Matisse. Di rado invece vengono ricordate le amicizie, come se si potessero capire l’invidia e il complesso di Salieri più facilmente dell’ammirazione reciproca e della solidarietà che talvolta uniscono spiriti diversi in tutto, eppure capaci di comprendersi. Le Aringhe affumicate di Arles parlano anche di questo. Esse sono l’ultima apparizione di un genere di pittura perduto: il dono d’addio. In segno di amicizia, i Greci donavano all’ospite in partenza un quadro che raffigurava frutti o cibi. Lo chiamavano xenia. Il 23 marzo, su richiesta di Theo che lo sapeva in viaggio nel sud della Francia, il pittore Paul Signac andò a trovare van Gogh in ospedale. Può sembrare un gesto doveroso. Non lo era. Nessun altro (a parte il postino Roulin e un pastore protestante) si prese la pena di fargli visita. Signac lo aveva conosciuto a Parigi nel 1887: ad Asnières avevano dipinto insieme il paesaggio industriale suburbano. Van Gogh aveva assimilato la lezione neo-impressionista di Seurat - di cui Signac era sodale e amico. Ad Arles, Signac ottenne il permesso di far uscire van Gogh dall’ospedale, ma non di sfondare la porta della Casa Gialla (la serratura era stata rotta durante l’apposizione dei sigilli). Signac la aprì lo stesso. Van Gogh gli mostrò i quadri cui lavorava prima del ricovero: Caffè di notte, La Berceuse, Notte stellata… L’anarchico Signac era un artista consapevole e un critico acuto. Parlarono a lungo di pittura, fraternamente. La sua presenza risollevò il morale di van Gogh. Credeva che l’amicizia, liberandolo della sua spaventosa solitudine e ancorandolo alla vita, potesse salvarlo. L’indomani, al momento del congedo, come ringraziamento volle regalargli un quadro: questo.
La corrente puntinista di Signac fu sconfitta dall’influenza della pittura di van Gogh, estranea allo studio degli effetti della luce. Ma Signac non serbò rancore, e non esitò a riconoscere il genio dell’altro. Definì ‘capolavori’ i quadri visti nella Casa Gialla. Ebbe sempre care le Aringhe affumicate, e non volle venderle mai. Esse restano una lezione di pittura, e un pegno d’amicizia: xenia.
Nella storia dell’arte sono passate in leggenda le inimicizie tra i pittori. Le cattiverie, le rivalità che opposero Bramante e Michelangelo, Tiziano e Tintoretto, Caravaggio e Baglione, Lanfranco e Domenichino, Picasso e Matisse. Di rado invece vengono ricordate le amicizie, come se si potessero capire l’invidia e il complesso di Salieri più facilmente dell’ammirazione reciproca e della solidarietà che talvolta uniscono spiriti diversi in tutto, eppure capaci di comprendersi. Le Aringhe affumicate di Arles parlano anche di questo. Esse sono l’ultima apparizione di un genere di pittura perduto: il dono d’addio. In segno di amicizia, i Greci donavano all’ospite in partenza un quadro che raffigurava frutti o cibi. Lo chiamavano xenia. Il 23 marzo, su richiesta di Theo che lo sapeva in viaggio nel sud della Francia, il pittore Paul Signac andò a trovare van Gogh in ospedale. Può sembrare un gesto doveroso. Non lo era. Nessun altro (a parte il postino Roulin e un pastore protestante) si prese la pena di fargli visita. Signac lo aveva conosciuto a Parigi nel 1887: ad Asnières avevano dipinto insieme il paesaggio industriale suburbano. Van Gogh aveva assimilato la lezione neo-impressionista di Seurat - di cui Signac era sodale e amico. Ad Arles, Signac ottenne il permesso di far uscire van Gogh dall’ospedale, ma non di sfondare la porta della Casa Gialla (la serratura era stata rotta durante l’apposizione dei sigilli). Signac la aprì lo stesso. Van Gogh gli mostrò i quadri cui lavorava prima del ricovero: Caffè di notte, La Berceuse, Notte stellata… L’anarchico Signac era un artista consapevole e un critico acuto. Parlarono a lungo di pittura, fraternamente. La sua presenza risollevò il morale di van Gogh. Credeva che l’amicizia, liberandolo della sua spaventosa solitudine e ancorandolo alla vita, potesse salvarlo. L’indomani, al momento del congedo, come ringraziamento volle regalargli un quadro: questo.
La corrente puntinista di Signac fu sconfitta dall’influenza della pittura di van Gogh, estranea allo studio degli effetti della luce. Ma Signac non serbò rancore, e non esitò a riconoscere il genio dell’altro. Definì ‘capolavori’ i quadri visti nella Casa Gialla. Ebbe sempre care le Aringhe affumicate, e non volle venderle mai. Esse restano una lezione di pittura, e un pegno d’amicizia: xenia.
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