Guido Reni e quel dipinto realizzato nel 1637: tra storia e metafora
Melania G. Mazzucco
"l’Unità", 22 giugno 2014
LA FORTUNA È UNA DONNA. ANZI, UNA FANCIULLA BELLISSIMA. È UNA CONVENZIONE CHE I PITTORI NON DISCUTONO. ANCHE SE VIVONO IN UN’EPOCA IN CUI IL FATO SI È ARRESO ALLA PROVVIDENZA, E NEL CIELO REGNA SOLO DIO. Le allegorie classiche sono un repertorio di figure, il pretesto dei collezionisti che bramano contemplare nelle loro stanze nudità muliebri senza commettere peccato.
Così, bionda e bella come una dea pagana, un roseo pudico drappo a coprirne la nudità, la dipinse Guido Reni. Intorno al 1639 Luca Assarino, avventuriero della penna e romanziere pronto a tutto, anche a farsi tromba della gloria dell’eminentissimo cardinal Sacchetti, la vide sul cavalletto del pittore, a Bologna. Il cugino del cardinale gliela aveva commissionata quell’anno, l’anno prima, o prima ancora: Reni aveva preso l’abitudine di incassare la caparra, abbozzare subito l’opera richiesta, e poi dimenticarla. Le tele incompiute si ammucchiavano nello studio, a centinaia. La Fortuna, però, era quasi pronta.
Il cardinal Sacchetti, per la seconda volta legato pontificio a Bologna, era un ammiratore di Reni. I due si frequentavano dalla giovinezza, ormai remota per entrambi. Nel 1639, il pittore aveva sessantacinque anni, e gliene restavano solo tre da vivere. Il cardinale ne aveva quarantasei, ma il meglio dell’esistenza lo aveva già alle spalle. Sacchetti amava presentarsi all’improvviso nello studio del pittore. Reni si concedeva volentieri. Ambasciatori e principi di passaggio gli facevano visita - come fosse, di Bologna, il monumento più illustre. Col mantello poggiato con noncuranza sul braccio sinistro, si lasciava guardare mentre intingeva il pennello nella tavolozza che l’assistente di turno gli porgeva, gongolando per essere stato preferito agli altri duecento allievi del maestro. Reni offriva al pubblico l’artista, per proteggere l’uomo. Quello lo conosceva solo Dio - e i suoi servitori.
Forse la Fortuna che Assarino vide nello studio - volante sul globo, arbitra del destino dei mortali - era proprio quella destinata al Sacchetti. O forse no. Quando un’idea gli piaceva, o piaceva al committente, Guido la replicava, o la faceva replicare ai suoi scolari, ancor prima che il quadro lasciasse la bottega. Il cugino regalava al parente una Fortuna per un motivo assai ovvio. Il cardinale ne aveva bisogno.
Non per guadagnar denaro, come la maggior parte degli stolti che la invocano. Il cardinale era già ricchissimo e infatti nel quadro la Fortuna non ha per attributo una volgare borsa per le monete. La Fortuna tiene fra le dita una corona. È lei che assegna capricciosamente il potere a questo o quello: senza la Fortuna, nessuno salirà sul trono. E il cardinale sognava di diventare papa alla morte di Urbano VIII. Guido serviva i cardinali della corte, ma non ne aveva soggezione. Per fare un cardinale basta un papa, diceva. Per fare uno come me, ci vuole Iddio.
Tuttavia col tempo fra il cardinale e il pittore si era creata un’insolita familiarità. Una volta che Sacchetti si presentò senza preavviso nello studio dell’artista, ci trovò il barbiere, intento a rasargli il mento. Reni fece per alzarsi in piedi, ma il cardinale lo prevenne e afferrò il rasoio. Mortificato, il pittore tentò di riprenderselo. Sacchetti gli ordinò di rimettersi seduto, altrimenti avrebbe continuato a tenere in mano il rasoio. Ai servitori di entrambi, il comportamento del cardinale parve eccessivamente deferente. Non a Guido. In fondo l’imperatore Carlo V si era chinato a raccogliere il pennello di Tiziano, quando gli era caduto.
Reni dipinse dunque la Fortuna in volo. Coi capelli al vento e la pelle di seta. Era famoso in tutta Europa per la bellezza delle sue madonne, sante ed eroine. Le sue femmine piene di grazia e tenerezza apparivano sublimi. Ma i suoi ammiratori sarebbero rimasti delusi se avessero saputo il nome della modella che posava per lui. Immaginavano una costumata fanciulla, o una gentildonna. Invece si chiamava Pierino, era il ragazzaccio col ceffo da criminale che gli macinava i colori. La bellezza bisogna averla in testa, e non sotto gli occhi.
Non entravano donne, nello studio di Bologna. Né in casa. Se vecchie e brutte, Reni le aborriva. E le temeva, reputandole tutte streghe. Se giovani e belle, lo lasciavano di marmo. La Fortuna però la rispettava. Era la vera padrona della sua vita. Non perché gli aveva donato il talento, o il successo. Quello lo aveva sviluppato con lo studio, e questo guadagnato col lavoro e la fatica.
Tutte le sere, dopo l’Ave Maria, il pittore si inabissava nei vicoli tenebrosi di Bologna. Solo. Oppure scortato dal fido Marchino, l’ambiguo tuttofare che gli faceva da maggiordomo, governante, cuoco, copista e mediatore. Reni andava al ridotto - e giocava a carte fino all’alba. Il rischio leniva l’ansia e la malinconia che lo divoravano. Il gioco era la sua malattia, il suo vizio, e il suo peccato. Puntava cifre sbalorditive, e quasi sempre perdeva. Arrivò a perdere in una notte l’equivalente di cinque mesi di lavoro, e in due notti 8500 scudi: una somma che un altro pittore avrebbe impiegato dieci anni a guadagnare. Era sfortunato al gioco, ma non perché fortunato in amore. L’amore non faceva parte del repertorio della sua vita. Nessuno lo aveva mai visto con una donna. Era vergine. Molti lo paragonavano a un angelo. Amore per lui era solo un puttino biondo. Grazioso e perfetto come chi esiste solo nei sogni. Se era sfortunato, è perché doveva continuare a dipingere.
Infatti, se avesse vinto ogni sera, non avrebbe più avuto bisogno della pittura. Alla lunga l’opulenza spegne la sete. Avrebbe dipinto per diletto, o per compiacere qualcuno. E poi si sarebbe goduto la ricchezza, come gli suggerivano i borghesi suoi amici, che gli consigliavano di investire il capitale acquistando case e terreni. Invece lui preferiva abbandonarsi senza ritegno al piacere dello sperpero. A un amico aveva confessato: «godo solo quando spendo». Così perdeva. Perdeva i denari che aveva portato con sé, quelli che teneva a casa o in banca, quelli che non aveva ancora guadagnato. Un altro si sarebbe sparato, o disperato. Lui si buttava sul letto, e si addormentava di schianto, sereno come un cherubino. Il giorno dopo il fido Marchino fronteggiava legioni di avidi creditori, e poi pellegrinava per la città, chiedendo prestiti per pagare i debiti. Amedici, cavalieri, speziali, preti, devoti e delinquenti. Tutti erano pronti ad aprire la borsa per il divino Guido. Ma in cambio volevano quadri. E quadri ricevevano - come caparra. Così lui dipingeva per giocare, e giocava per dipingere, e le carte lo illudevano e poi lo tradivano, e la fortuna sfuggiva alla presa dell’amore, un sorriso ineffabile sulle labbra.
La Fortuna non si lasciò sedurre né dal pittore né dal cardinale. Reni, che aveva guadagnato come Rubens, e avrebbe potuto essere ricco come un principe, morì povero di tutto. Tranne che di quadri e disegni: ne aveva fatti talmente tanti che centinaia di persone si mantennero per anni vendendoli uno a uno. Il cardinale fu sfiorato dalla Fortuna, che gli mostrò la corona d’oro, e passò oltre. Al Conclave del 1644 Sacchetti era il candidato papa favorito - e gradito dai romani e dagli artisti che lo sapevano munifico. Ma gli Spagnoli misero il veto sul suo nome. Reni non poté vantarsi di aver avuto per barbiere un papa. Non lo avrebbe fatto per superbia, ma per umiltà. Sarebbe stata, per la pittura, la più grande vittoria. Sul denaro, sul potere, sul privilegio del sangue. La Fortuna, però, non glielo concesse.Donna, bellissima: Reni non l’aveva amata abbastanza.
Nota Il quadro di Guido Reni qui citato è: «La fortuna che reca in mano una corona», 1637, collezione privata Usa (pubblicato da Denis Mahon)
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