Riccardo Falcinelli
minima&moralia, 7 giugno 2014
versione integrale dell' articolo apparso su Pagina 99
Si leggono libri, si guardano film, si frequentano mostre, si osservano fotografie e ci si interessa di design. Mai, come nel mondo contemporaneo, la consuetudine con le forme artistiche, espressive o di intrattenimento è stata a portata di mano. E di certo insieme a tutto questo si passa molto tempo a interagire col computer. Possiamo anzi dire che oggi la maggior parte delle esperienze – anche quelle estetiche – sono filtrate in qualche maniera, magari piccola o parziale, da uno schermo.
Si leggono libri, dicevamo: ma spesso li si è conosciuti prima di leggerli tramite la recensione di un blogger, o li si è acquistati online, così che quando quel libro ci arriva a casa (se lo abbiamo scelto di carta) abbiamo in mano l’esemplare di qualcosa già visto su amazon tramite una copertina piccola come un francobollo.
Si guardano film, dicevamo: magari in streaming o scaricandoli più o meno legalmente; su monitor, tablet o telefonino. Si frequentano mostre: e spesso, dopo averle viste, si ricercano in rete i dipinti più amati per eleggerli a sfondo del proprio monitor; oppure si frequentano mostre esclusivamente virtuali come le bacheche a tema di Pinterest.
E si osservano fotografie: e oltre alle infinite gallerie sul web, oltre Flickr e Instagram, i nostri telefoni abbondano di foto private o di grandi autori del passato. Lo schermo, come una finestra aperta su mille mondi esperibili, rimanda alla realtà là fuori da qualche parte. Non tutta la realtà: quella che ci interessa in un determinato momento; e questo non riguarda solo dipinti, film o libri ma anche la frequentazione delle altre persone, tramite i social network, o il sesso, tramite il dating online e la pornografia.
Marshall McLuhan anticipava cinquant’anni fa il peso che le tecnologie avrebbero avuto sulle nostre vite, individuando nei mass media un potenziale che amplificava le esperienze ma che, allo stesso tempo, le avrebbe frammentate. Non abbiamo smesso di interagire col mondo ma il mondo lo conosciamo sempre più spesso tramite filtri che influenzano il nostro punto di vista sulle presunte interazioni “reali”. Lo schermo è un medium ed è una mediazione: non abbiamo smesso di guardare dipinti o di leggere romanzi ma la loro disponibilità virtuale sta cambiando il nostro sguardo su queste forme.
Oggi, stesi sul divano di casa, si possono leggere dieci pagine di un romanzo o si può guardare un film; cercando nel frattempo su internet la biografia di un certo attore; finendo su facebook; per poi tornare al romanzo. Questa non è l’esperienza di un adolescente sregolato: questa è la norma nel mondo contemporaneo e le virtù – per chi sa cosa farsene – sono maggiori dei pericoli.
Le fruizioni molteplici e incrociate non erano di certo vietate in passato e, con un po’ di fantasia, possiamo immaginare un antico romano mentre legge e allo stesso tempo discute con gli amici dei dipinti esposti in biblioteca; è però la tecnologia che ha portato queste possibilità a maturazione, o – diranno gli apocalittici – a implosione.
Il lettore di Moby Dick che viveva in un mondo senza tv, radio o internet finiva per avere di Melville un’idea più compatta, delimitata e unitaria di quella che possiamo averne noi oggi. L’idea di “autore” formulata dalla cultura romantica era figlia di precise pratiche comportamentali e dei medium disponibili all’epoca; a quest’idea ancora facciamo riferimento eppure quelle pratiche e quei medium non esistono più. La tv prima, il computer poi, hanno moltiplicato le contaminazioni e le distrazioni frammentando l’esperienza del fruitore.
A guardare le cose in prospettiva, però, quell’unitarietà era solo apparente. I lettori forti hanno sempre finito per saltare con la mente di palo in frasca. Anzi: cos’è la critica letteraria o cinematografica se non un peregrinare con la fantasia mettendo in relazione cose lontane alla ricerca di un nuovo senso? McLuhan sosteneva che i medium sono “protesi”: non semplici strumenti, non semplici tecnologie, bensì estensioni dei nostri sensi. E oggi, tra le sensibilità amplificate dagli schermi, c’è appunto quella di tessere relazioni tra elementi eterogenei. Se un film, un libro o una foto mi scorrono davanti su uno stesso device, metterli in relazione non solo è facile, ma inevitabile.
La prima protesi – ma non riconosciuta subito come tale – fu la fotografia. Tutte le foto hanno fin dall’origine una caratteristica fisica comune: sono rettangoli, prevalentemente di carta. In principio, a queste si chiedeva di restituire la realtà “naturale”, quella del mondo intorno a noi; le cose presero una piega più complessa quando si cominciò a usare la fotografia per documentare altre immagini, ad esempio fotografando i dipinti del passato. Nell’Ottocento – per la prima volta nella storia – si poté poggiare sul proprio tavolo immagini dai contenuti eterogenei: affiancando il ritratto di un amico e un dipinto di Raffaello. A noi sembra un fatto banale ma gli uomini del passato non potevano farlo.
Fu Aby Warburg (1866-1929), fondatore dell’iconologia moderna, a cogliere in questo gesto un'enorme possibilità per la fantasia e per il ragionamento. Affiancando una venere di Botticelli e una foto presa da una rivista di consumo, Warburg cominciò a rintracciare alcune somiglianze visive tra le posture delle due figure, investigando quelle invarianti antropologiche che fanno sì che una donna si atteggi in modo simile in un dipinto fiorentino del ’400 e in una foto mondana di inizio ’900. Warburg chiudeva così con la vecchia storia dell’arte, preannunciando un nuovo modo di “guardare” di cui è debitore il nostro sguardo moderno. Anche il cubismo e il futurismo hanno risentito in maniere diverse del medium giornalistico e pubblicitario che ci pone sotto gli occhi oggetti disparati e eterogenei. Ancora oggi, quando si sfoglia una rivista illustrata o un giornale, è comune trovare una cruda foto di reportage affiancata a una foto di moda, ma senza la possibilità di rendere maneggiabili quelle due immagini – fisicamente maneggiabili e confrontabili – il salto dal palo alla frasca sarebbe rimasta una bizzarria e non avrebbe innescato un ragionamento sensato e proficuo. In questo senso, per Warburg, il medium ha permesso il messaggio.
Anche la televisione ha prodotto qualcosa di simile. Lo zapping, da almeno trent’anni, ci ha messo nelle condizioni di assistere a linguaggi diversi e giustapposti: la fiction con il reportage, la pubblicità con lo sport in diretta. La prima conseguenza è stata la perdita di verità del reale. La fiction somiglia ai fatti di cronaca, e la cronaca è raccontata con tutti gli escamotage narrativi della fiction. Più di un osservatore ha sottolineato come l’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001 si sia presentato ai nostri occhi (e alle nostre menti) assecondando tutti gli stilemi visivi di un film catastrofico. È dunque legittimo chiedersi: sono i terroristi a imitare il cinema americano per farsi “capire” meglio dai destinatari? O siamo tutti noi a proiettare sulle torri gemelle un’immagine psicologica che ci siamo formati guardando i film di fantascienza?
La tv è di certo responsabile del gusto per l’assemblaggio caratteristico della cultura postmoderna. In un saggio cruciale a questo proposito, Imparando da Las Vegas, l’autore Robert Venturi (1925) metteva sotto gli occhi dei colleghi architetti non le idee astratte e utopistiche del Modernismo ma una città reale e decisamente particolare. Las Vegas è una giustapposizione non tanto di muri e di strade quanto di testi, di scritte pubblicitarie, d’insegne, di nomi, di parole, di lampadine e di neon. Ma attenzione: Las Vegas è una città “limite”, non una città finta. Tutte le città in cui abitiamo hanno caratteristiche simili: anche in Italia i nomi delle strade – scritti nel marmo e spesso dedicati a personaggi famosi – si mostrano vicino all’insegna luminosa del supermercato, e di certo i cassonetti dell’immondizia (in colori diversi) non erano stati previsti dagli urbanisti che hanno disegnato i nostri quartieri. Ecco, dice Venturi: un architetto come Le Corbusier non ha mai pensato alla città reale, quella davvero “in atto”. L’urbanistica di Las Vegas è un medium che funziona come la televisione, non come l’Atene di Pericle. Imparare da Las Vegas vuol dire dunque imparare da una città in cui la sovrapposizione è la norma.
Chi ha imparato dallo zapping è invece David Foster Wallace (1962-2008), la cui scrittura risente, sotto molti aspetti, della logica del minestrone televisivo. Wallace preferisce alla “trama” un discorso libero e torrenziale che procede per digressioni continue: non si accontenta del respiro della pagina “da narrativa” e sfora di frequente nelle note al piede (anche più lunghe del testo principale), fino a prevedere note all’interno delle note. Con Wallace ci troviamo sempre nel mezzo di un continuum. Il racconto sembra non avere una fine precisa, né sembra mai iniziato ufficialmente, come fosse stato scritto per chi “si fosse messo all’ascolto soltanto adesso”, come amano ripetere gli anchormen della tv. Wallace inizia a scrivere prima di internet ma anticipa la logica infinita con cui si inseguono i link. Una scrittura entropica, come la società di cui parla, che restituisce l’immagine di un libro che non può più essere circoscritto, delimitato, salvato da distrazioni o contaminazioni. Non l’incapacità di scrivere il Moby Dick, bensì l’impossibilità di possederlo in testa come facevano i lettori del passato.
Ma in fondo tutto questo è un male? Muoversi tra i frammenti non comporta la rinuncia a una visione del mondo: dalla giustapposizione può scaturire uno sguardo sulle cose, e quindi una sensatezza. Warburg, attraverso la protesi fotografica, frammenta il Rinascimento per costruire un’idea più umana del ruolo che le immagini hanno nella nostra vita. Wallace allinea brandelli restituendoci un’immagine precisa (quanto paradossalmente unitaria) del mondo contemporaneo. Anzi procedere per analogia e per giustapposizioni sembra essere la condizione necessaria per qualsiasi conoscenza che non si fermi al risaputo. Il magma di contenuti che ci viene addosso ogni giorno è perciò allo stesso tempo causa di dispersione e occasione culturale. A saperle usare, le protesi ci permettono di afferrare nessi imprevisti tra le cose, andando più lontano; ma per attivarne gli elementi fecondi bisogna correre dei rischi, primo fra tutti quello di sporcare i propri convincimenti o di perdersi. L’idea che ci facciamo delle opere d’ingegno (libri, film, foto e dipinti) non prescinde mai dalle pratiche e dai mezzi con cui ci entriamo in relazione. In questo senso, oggi più che mai, il medium prima di essere un messaggio è un punto vista.
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