Siamo sempre connessi, anche quando siamo soli
La separazione dal mondo, seppure per pochi istanti, fa paura come una malattia
E nei bar di Tokyo la “cura” è un pupazzo da compagnia
Gabriele Romagnoli
"La Repubblica", 2 giugno 2014
UN RAGAZZO cammina solo in una città straniera, si ferma, estrae dalla tasca uno smartphone, solleva il braccio, sorride allo schermo, scatta. Poi controlla l'esito, clicca su un altro paio di comandi prima di riporre l'oggetto e ripartire. Si è appena fatto un selfie, fin dall'etimologia (self = se stesso) qualcosa di solitario, ma l'ha condiviso con un numero imprecisato di persone postando l'immagine su Facebook, Instagram o qualche altro social network. Il navigatore solitario Manfred Marktel va in barca dalla Namibia a Bahia. Durante il percorso (4.000 miglia) tiene un blog, fa sapere tutto quel che gli accade, riceve commenti e risponde.
Una giovane di nome Robyn Davidson, in crisi interiore, lancia una sfida a se stessa e decide di attraversare il deserto australiano a piedi. Anni prima, in analoghe condizioni psicologiche, un giovane americano di nome Cristopher Mc Candless si era allontanato da tutto e tutti sperdendosi in Alaska.
Entrambe le vicende hanno originato film: “Tracks” e “Into the wild”. Come si vede nei finali: lui muore, lei sopravvive. Perché non si è mai isolata del tutto. Ha portato con sé il cane, a tappe, seppur distanziate, si è fatta raggiungere da un fotografo con cui ha amoreggiato. Ha già concepito l’idea di un articolo, una mostra fotografica, una pellicola. Mc Candless viene trovato morto in un pulmino al cui esterno ha appeso un foglio con su scritto: “Sono da solo e questo non è uno scherzo. Per favore, in nome di dio, fermatevi e salvatemi”. Lo hanno ucciso probabilmente le patate avvelenate che mangiava. Complice, la solitudine. Per questo, per spirito di sopravvivenza, non sappiamo più davvero affrontarla?
Per questo, come Robyn nel deserto, il ragazzo del selfie e il navigatore nell'oceano, non stiamo mai veramente soli? Abbiamo sconfitto quello che consideriamo un mostro o l’abbiamo semplicemente ricreato in altre forme? Che ne avessimo paura lo sappiamo fin dal saggio “On loneliness” della psicanalista Frieda Fromm-Reichmann. Troppa, sostiene lei.
In un articolo del 2013 dal titolo “The science of loneliness” la rivista americana New Republic spiega con supporti statistici e verifiche di laboratorio che la solitudine può uccidere. Almeno quanto il fumo. E causare l'Alzheimer, l'obesità, una più rapida diffusione delle metastasi in caso di cancro. Un esperimento compiuto dalla psicologa Naomi Eisenberger dimostra che l’esclusione da un contesto sociale provoca una reazione scatenata dagli stessi centri che trasmettono il dolore fisico. Molto semplicemente (come dimostra il caso di “Into the wild”) è più probabile ammalarsi se non c’è nessuno accanto che si prenda cura di te. La sintesi poetica di Auden è: “Dobbiamo amarci o morire”.
Non sempre si può scegliere. A essere soli sono infatti prevalentemente i vecchi, i poveri (benché Albert Camus lo considerasse “lusso dei ricchi”), i diversi. Tre categorie a cui è difficile rifiutare l'iscrizione. E anche se lo psicologo John Cacioppo, alla maniera di Catalano, avverte “Stare con gli altri non evita la solitudine”, si sono individuate forme di cura alla portata di tutti. Si va dagli animali (vedi “Tracks”) a dio.
L'eremita metropolitano di Padova, padre Domenico Maria, la segnala al terzo di abitanti single del capoluogo veneto come «un’opportunità per avvicinarsi alla fede». Di fatto, ognuno, come in ogni altra situazione, fa quel che può, assecondando la massima di Victor Hugo: “La solitudine crea persone d’ingegno. O idioti».
È stato Vasco Rossi a proporre l'introduzione a scuola dell’ora di solitudine, per imparare a stare con se stessi. Molti anni prima il suo collega Tito Schipa jr. aveva inciso una canzone dal titolo “Non siate soli”, che si chiude così: «Lo so che io a solitudine ho spostato mari e monti/acceso fuochi, osato libri grandi e versi e canti/Per finire a far da anello rotto in fondo a una catena/Ma voi non siate soli”.
È un invito tanto accorato quanto seguito. Nessuno più sa star solo sul cuor della terra a farsi trafiggere da un raggio di sole.
I vagoni delle metropolitane sono pieni di palombari che chattano, in Giappone se ti siedi in un caffè e non c'è nessuno con te ti piazzano di fronte un pupazzo.
Ma sono davvero metodi per cancellare la solitudine o piuttosto per reinventarla? E, se fosse vera la seconda cosa, per renderla addirittura più forte? Chi è più realmente solo di colui che si trova immerso in una folla di amici virtuali? Ogni svolta in quel senso è una rinuncia a possibilità concrete. Il ragazzo che si scatta il selfie evita di chiedere, come si usava, a un estraneo di fargli la fotografia. Una volta su dieci, cento, mille, da quel contatto scaturiva qualcosa di più: una chiacchierata, una serata, una relazione. L’avventore che siede di fronte al pupazzo evita il contatto visivo con gli occhi di chi è ugualmente solo e magari potrebbe avvicinarsi.
Le metropolitane erano pagine di piccoli annunci: AAA donna trentenne bionda sportiva non fumatrice cerca uomo max cinquantenne, libero, in completo scuro, che scende a Cordusio. Ora sono libri chiusi, occhi fissi, ripiegamenti. Siamo così circondati da opportunità che non cogliamo. Rifiutiamo la solitudine, ma allarghiamo il vuoto che abbiamo dentro.
Perfino i “mostri” della cronaca nera non sono più soli. Era un classico, dopo l’arresto, l’intervista al vicino che dichiarava: “Tipo sospetto, non frequentava mai nessuno”. L'ultimo “mostro”, quello che crocefiggeva prostitute vicino a Firenze, teneva famiglia: viveva con mamma e papà e aveva sposato una immigrata dell'Est. Si suppone, per non stare da solo, farsi curare, tenere a bada i propri demoni. Missione non esattamente compiuta.
Bisognerà prima o poi arrendersi all'idea che la solitudine è un tratto, come il ciuffo ribelle o la sventatezza. Sta nel Dna quanto nell’esperienza.
Se si è conficcata nell’anima può accompagnarsi dolcemente ad altre solitudini quanto alla propria, ma non al can can, virtuale o autentico. Si torna sempre al noto aforisma di Friedrich Nietzsche: “Nella solitudine il solitario divora se stesso. Nella moltitudine lo divorano i molti. Ora scegli”. Sembra una condanna. L'unica salvezza è accettare la pena, in tutti i possibili sensi, vivere la galera come liberazione. Fare propria la strofa di Gianni Morandi: “Io ti trovo bella, non mi fai paura/Signora solitudine”.
Quel sogno impossibile dell’ultima isola deserta
Guia Soncini
L'ULTIMA solitudine rimasta è quella dei non possessori di lavastoviglie. Che, lavando i piatti, non possono scrivere messaggi, controllare che si dice su Twitter, pubblicare su Facebook pezzi di vita da condividere. Col lavandino pieno di schiuma, siamo soli con noi stessi.
Quell’esperienza traumatica ma necessaria in nome della quale il comico americano Louis CK si rifiuta di comprare un cellulare alle figlie: dice che smanettare su quella tastiera è un modo per non rendersi conto neanche per un istante che dentro di noi c’è un vuoto che niente riempirà mai, un’infelicità esistenziale. Sì, forse la sta mettendo giù dura: è solo un cellulare. E sì, anche coi guanti di gomma e la paglietta potremmo parlare in viva voce con qualcuno. Ma ormai telefonare è un utilizzo del tutto marginale del telefono: prevede un’attenzione eccessiva, è un’attività invadente. Essere perennemente collegati, invece, ci lascia l’illusione di essere soli. Ma allo stesso tempo ci rassicura: non lo siamo.
La scrittrice Ruth Thomas ha pubblicato su New Republic un saggio intitolato “La scomparsa della solitudine” in cui ricostruiva le due settimane passate da sola, in campagna, in un casale in cui non riusciva a configurare la connessione a Internet. Le cinque fasi dell'elaborazione del lutto sono andate da “Dio, quanto mi sento sola” a “Ti dirò, non mi dispiace”. Perché, se non sei connessa e niente di ciò che immagini può avere un riscontro immediato, un like, uno scambio, allora avrai lo spazio mentale per far diventare quel pensiero passeggero un’idea decente. Se “Una stanza tutta per sé” venisse scritto oggi, avrebbe come sottotitolo “E che non sia cablata”.
Lo sceneggiatore della serie tv The Newsroom, Aaron Sorkin, racconta che quando sta scrivendo fa molte docce e molti giri a vuoto in autostrada con la musica alta. Dice che gli danno una sferzata di energia, ma non è mica quello: è che sono le uniche attività durante le quali non puoi connetterti o prendere appunti. È il momento in cui le idee circolano. O meglio, lo era: qualcuno ha inventato i post-it impermeabili da attaccare alle piastrelle della doccia. Erano gli ultimi attimi sconnessi dal mondo, in cui sapevamo che non ci potevamo appuntare niente, che non potevamo cercare su Google qualcosa che non ricordavamo, che il mondo non si aspettava pensierini brillanti da noi; era l'ultima isola deserta, e il progresso ce l'ha sottratta. (Come alla doccia stanno i post-it plastificati, ai giri in macchina stanno gli sms alla guida: Louis CK sostiene che preferiamo rischiare di sfracellarci che sentirci soli).
Jonathan Franzen, la cui specialità dell’ultimo decennio sono le tirate contro la modernità, dice che nessuno che scriva in un posto connesso a Internet produrrà mai grande letteratura. Ha ragione (è senz’altro colpa del wifi se io non ho scritto “Le correzioni”), e mi aspetto un’altrettanto vigorosa invettiva contro i post-it da doccia.
Ma produrre grande letteratura è un’ambizione per pochi (troppi rispetto a quelli che lo faranno davvero, ma comunque una minoranza). L'ambizione di noialtri mortali, invece, è trovare una presa a metà pomeriggio. Quando il telefono immancabilmente si scarica, e rischiamo di restare soli con noi stessi.
Accogliamo dritte su dove si trovino le prese in stazioni e aeroporti con il sollievo con cui, nel secolo scorso, ci appuntavamo nome e numero del cardiochirurgo che avrebbe potuto salvare nostra madre. Percepiamo le immaginarie vibrazioni di un telefono ormai spento, in tasca, con lo struggimento con cui gli amputati sentono l’arto mancante. Non è il cibo né la riscoperta del territorio: il segreto del successo di Eataly è che alla cassa tengono, da prestare ai clienti, dei caricabatterie per il telefono. Se nel frattempo mi resusciti il cellulare, sono disposta a comprare tutto il farro prodotto nella mia regione.
«Io lo so che non sono solo anche quando sono solo », cantava Jovanotti. Pensavamo fosse misticismo, ma era solo che anche lì, in quel videoclip in Amazzonia, aveva due tacche di ricarica.
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