E il cammino diventa danza per procedere con dignità
L’uomo va avanti nel suo destino.
Carlo Sini
"Corriere della Sera", 19 giugno 2014
«Mentre gli altri animali tengono proni lo sguardo verso la terra, gli dèi vollero che gli uomini, eretti, levassero il volto a mirare il cielo e a guardare le stelle»: così Ovidio nelle Metamorfosi (I, 84). L’intuito dei poeti trova qui una conferma, perché l’acquisto della postura eretta fu indubbiamente uno degli eventi decisivi per il destino degli umani sul pianeta. Per una ragione o per un’altra, forse legata ai mutamenti del clima e alla necessità di muoversi rapidamente nelle pianure africane, i nostri antenati impararono a camminare. Liberarono così, in un colpo solo, le mani e la bocca, destinandole a compiti nuovi e straordinari: dalla fabbricazione di armi e di utensili all’articolazione dei suoni della voce, mettendosi letteralmente in cammino verso il linguaggio. A dire il vero non furono i soli. Prima di loro altre specie e varietà di ominidi imboccarono la via della postura eretta e la perfezionarono per lungo tempo anche contemporaneamente a noi, ma non c’è dubbio che della marcia sul pianeta divenimmo poi i campioni assoluti, distanziando tutti gli altri, scomparsi via via nella oscurità di un passato che solo vaghe tracce testimoniano per il sapere dei nostri scienziati: anche loro hanno camminato a lungo e ancora camminano a ritroso con l’immaginazione e la ricerca.
Homo viator: Bruce Chatwin, nei suoi suggestivi racconti, ci ha ricordato che la maggior parte del tempo trascorso ci ha visti impegnati in un nomadismo perenne e che solo molto di recente siamo diventati stanziali. La nostra, secondo Chatwin, è nel profondo un’anima di viaggiatori, dotati di un corpo irrequieto come quello di Ulisse: se resta fermo declina, si ammala, non fosse altro per nostalgia dell’ignoto e del mai conosciuto. E così la metafora del viandante, che tutte le arti hanno frequentato e che nella musica di Schubert trova una realizzazione perfetta, è indubbiamente una delle più efficaci per comprendere la sorte dell’umana vicenda. Non ci siamo accontentati di misurare a grandi passi il giardino di Adamo; abbiamo voluto percorrere i mari e poi addirittura slanciarci nei cieli: non soltanto contemplarli come cantano i poeti.
Questo poi non è tutto, perché è molto riduttivo, o addirittura sbagliato, considerare la deambulazione degli umani solo dal punto di vista del movimento rettilineo di traslazione e dei parametri della velocità e della distanza percorsa. C’è dell’altro, che ci separa nettamente da tutti gli animali e ci rende unici sul pianeta. C’è il fatto cioè che noi e noi soli, per dire la cosa propriamente, danziamo, trasformando l’alternarsi dell’equilibrio e dello squilibrio nel movimento dei piedi in un ritmo corporeo e in un canto spirituale che mima palesemente l’armonia dell’universo e il ciclico corso delle celesti sfere: non si può negare che questo Ovidio l’avesse compreso. La danza è così il primo pensiero degli umani e la matrice di tutte le arti, sicché solo danzando e continuando a danzare, in senso reale e metaforico, testimoniamo di un inizio che nella notte dei tempi ci ha aperto, sulla terra e nel cielo, il cammino della verità e del destino. Molto povera sarebbe una cultura dimentica di questi aspetti, una cultura attenta solo agli esiti pratici e alla efficienza dei nostri mezzi di locomozione, anche se indubitabilmente straordinaria nel percorrere lo spazio che abbiamo reso disponibile alle nostre avventure. Bisogna ricordare che nella misura del chilometraggio il cerchione della ruota viaggia sì sempre più lontano, ma non può mai procedere più di quanto proceda il suo mozzo, l’immobile centro della ruota stessa.
Questa essenzialmente è la verità perenne della danza: ritmo del ritorno e della memoria ricostruttiva e costruttiva, senza la quale il procedere in avanti rischia di assomigliare al folle volo di Icaro, incarnazione sprovveduta dell’arte di Dedalo. Animali autenticamente tecnici, figli di quell’automa semovente che è la cultura, gli umani rischiano il non senso e forse la catastrofe se si dimenticano di danzare, cioè di procedere non solo con efficienza, ma anche con grazia e dignità, come diceva Schiller. Procedere memori di un destino che in ogni tempo va cantato e rappresentato, interpretato e riprodotto in tutti i saperi dell’umano, così che l’enigmatica luce che un giorno si accese continui a illuminare la notte e a dare senso al cammino.
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