domenica 15 giugno 2014

Riappropriamoci dei saperi


Gabriele Pedullà

"Il sole 24 Ore", 27 aprile 2014

Se la crisi delle humanities è un prisma dalle molte facce, un ruolo speciale nel dibattito spetta naturalmente a chi nella scuola e nell’università insegna: se non altro perché il contatto costante con i ventenni assicura una qualche capacità di previsione sul mondo che verrà. Ma parlare da professore impone oggi soprattutto una doverosa autocritica. I nemici delle humanities vincono perché coloro che dovrebbero difenderle sembrano avere smarrito le proprie ragioni. E, invece di interrogarsi sul perché oggi esse rimangono così indispensabili (e spiegarlo agli altri), preferiscono profondersi in un elogio del tempo che fu o in una infruttuosa polemica contro il predominio delle scienze esatte.
Appelli e gridi di dolore come quello lanciato da Alberto Asor Rosa, Roberto Esposito ed Ernesto Galli Della Loggia colpiscono il bersaglio sbagliato. È l’effetto di una ostilità all’educazione scientifica radicato nella tradizione italiana, da Croce e Gentile in giù. Ma il nemico mortale delle discipline umanistiche non sono la fisica o la matematica, e nemmeno la biologia o l’ingegneria, quanto gli pseudosaperi della “comunicazione”, che hanno progressivamente spostato l’accento dai contenuti al packaging (o, se si preferisce, dal messaggio al medium). Diecimila laureati in fisica in più non possono che fare bene a questo paese: ma ogni studente della vecchia facoltà di Lettere che lascia il posto a un aspirante comunicatore (comunicatore di un sapere che non possiede e che nessuno si preoccupa di trasmettergli) rappresenta un ulteriore passo avanti verso il baratro.
Da qualche decennio, purtroppo, con la complicità della politica la cattiva moneta scaccia la buona. Per questo, difendere le humanities oggi vuol dire anzitutto aiutarle a ritrovare la loro vocazione. Si tratta, oltretutto, di una vocazione molto italiana. È nel nostro paese infatti che è sorto l’Umanesimo propriamente detto, al quale poi si sono richiamati tutti gli umanesimi successivi. Qualcuno lo fa risalire a un gruppo di letterati padovani della fine del XIII secolo; qualcun altro a colui che più di tutti ha contribuito alla sua diffusione europea: Francesco Petrarca. Quello che conta, però, sono i caratteri distintivi di quel rivoluzionario progetto intellettuale. Umanesimo ha voluto dire per secoli (e vuol dire ancora oggi) essenzialmente due cose: percezione della distanza temporale (per gli umanisti: scoperta della differenza tra il proprio latino medievale e il latino della classicità) e sensibilità linguistica (per gli umanisti: autoconsapevolezza che la scrittura implica sempre una scelta: tra registri, opzioni, modelli da imitare). Esattamente ciò che l’attuale riformulazione dei saperi umanistici in chiave “comunicativa” osteggia. Mentre, in mancanza di una speciale attenzione per la dimensione storica dell’esperienza umana e per le potenzialità della parola (due aspetti che per gli umanisti si sorreggevano necessariamente a vicenda), diventa semplicemente inutile continuare a parlare di humanities.
La vulgata post-sessantottina sostiene che il vecchio umanesimo fosse solo un orpello di cui sbarazzarsi al più presto: nient’altro che un odioso strumento di distinzione sociale (Bourdieu dixit). Ma come ha recentemente mostrato Adolfo Scotto Di Luzio in uno dei libri più importanti della stagione, La scuola che vorrei, il successo della così detta educazione liberale presso le élite occidentali, dal XV al XX secolo, ha motivazioni completamente diverse. A prescindere dalla sensibilità per le differenze storiche, il contatto con il passato implicito nella formazione umanistica ha l’effetto di modificare profondamente la nostra esperienza del tempo. Chi dialoga con uomini e donne morti da secoli, impara a concepirsi come l’anello di una catena di generazioni. Nella vita quotidiana tale temporalità lunga vuol dire molte cose: senso di stabilità, allenamento a cogliere ciò che non cambia sotto la superficie esteriore degli eventi, progettualità, in definitiva accresciuta sicurezza psicologica. Ed è questa capacità di potenziamento del soggetto che ha reso il modello umanistico tanto allettante per le classi dirigenti europee.
Storicità, sensibilità linguistica, “tempo lungo”: la ricetta è ancora questa. Chi oggi intende difendere le ragioni delle scienze umane e, al livello inferiore, dell’educazione liberale deve insistere anzitutto sulla loro importanza non soltanto per i futuri professori, giornalisti, editori, ma anche per i futuri scienziati. E, su un piano ancora più generale, per i politici e i cittadini di domani. Perché è di questo che parliamo: di capacità cognitive, non di pura e semplice difesa della tradizione o dell’identità nazionale come si legge nelle abituali geremiadi sul tema.
Tutto questo discorso possiede però anche una sua precisa specificità italiana. Quando infatti parliamo di crisi delle humanities, il termine inglese non è – come troppo spesso accade – un semplice vezzo esterofilo. Esso indica piuttosto l’epicentro geografico del tracollo: il mondo anglosassone, Stati Uniti compresi. Chiunque ha avuto qualche esperienza di insegnamento nelle università Ivy League osannate nelle altamente inaffidabili classifiche internazionali sa per esserci passato che molti dei nostri studenti di laurea triennale sono non soltanto più preparati ma cognitivamente meglio attrezzati degli studenti di PhD statunitensi: i quali nonostante abbiano cinque o sei anni in più, sembrano, per capacità logiche e linguistiche, i loro fratelli minori. Questa banale verità, riconosciuta anche dai colleghi americani, non entra nel discorso pubblico italiano sulla formazione superiore mentre dovrebbe essere il punto di partenza di qualsiasi ragionamento realistico sullo stato delle nostre scuole e università.
Paradossalmente l’Italia di oggi si fa forte del suo ritardo. Grazie alla resistenza del liceo classico (quando e dove ancora resiste), il nostro paese è probabilmente l’unico in tutto il mondo occidentale nel quale rimane in piedi un sistema di formazione umanistica non troppo distante dagli standard alto-novecenteschi. I nemici delle humanities vorrebbero smantellarlo: esso invece rappresenta oggi per l’Italia una straordinaria risorsa culturale e potenzialmente – cosa non secondaria – economica. Nel momento in cui il governo Renzi annuncia di puntare tanto sulla scuola si tratta di un dossier da non trascurare.
Poiché di humanities ci sarà ancora bisogno a lungo, gli italiani possono facilmente diventare esportatori di eccellenza intellettuale in questo campo. In parte, nel disinteresse della politica, succede già (allo stato attuale, tutte le discipline considerate, si parla di circa ventimila professori o ricercatori italiani variamente disseminati per il mondo). Sarebbe però ora che i legislatori si rendessero conto che la progressiva colonizzazione delle maggiori istituzioni culturali del globo da parte di una generazione di umanisti italiani è un successo della educazione made in Italy. Su questo serve un deciso cambio di rotta. Non si tratta di lavorare al “rientro dei cervelli”, o non solo. Piuttosto, occorre prendere consapevolezza che, nella prossima generazione, se la politica non continuerà a promuovere ciecamente lo smantellamento dell’educazione liberale dai nostri licei (si veda il recente attacco alla filosofia), gli italiani potranno ambire a un ruolo di assoluto primato nel campo delle scienze umane.
Affinché questo avvenga sono necessari però due interventi: nella formazione e nella mentalità. La formazione umanistica va riformata in modo da mettere i laureati in Lettere in condizione di fare lezione in inglese senza difficoltà al momento del conseguimento della laurea, un obiettivo ambizioso ma del tutto essenziale se li si vuole indirizzare verso un network globale. Allo stesso tempo, è importante che chi si iscrive a Lettere sappia sin dall’inizio che molto difficilmente lo aspetta un posto di professore nell’ateneo sotto casa, ma che invece potrebbe attenderlo una brillantissima carriera tra Bangkok, Johannesburg e Princeton. Gli scienziati lo considerano del tutto normale, e così gli economisti e i manager; perché solo gli umanisti rifiutano di vedere nelle collocazioni all’estero un’opportunità?
Pensiamoci bene prima di sprecare una simile occasione. La Cina può lanciare con successo un programma per sfornare un milione di nuovi ingegneri in cinque anni, ma non possiede gli strumenti per dotarsi nello stesso lasso di tempo di diecimila docenti di discipline umanistiche e, sul tempo medio, non li possiederà in futuro. L’Italia, che questi strumenti li ha, non li sfrutta e medita persino di disfarsene. Si tratterebbe, invece, di fare di questa fortunata contingenza un mezzo di egemonia culturale: molto più efficace di cento sedi dell’associazione Dante Alighieri o di dieci istituti di cultura, anche come base di una nuova identità italiana per il mondo globalizzato. Meglio che il solito pizza-gondola-ferrari-juventus, o no?
La domanda è rivolta (anche) al presidente Renzi.

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