Il doppio sogno dell’amore assoluto
Due autori, diversi finali (e un giallo) per il poema celebre del XIII secolo
Paolo Di Stefano
"Corriere della Sera", 6 giugno 2014
I sogni non sono sempre menzogneri. Prende avvio da questa considerazione, suggerita dallo scrittore latino Macrobio, esperto di sogni, uno dei poemi narrativi medievali più diffusi e letti, il Roman de la Rose, scritto in antico francese e testimoniato da oltre trecento manoscritti (secondo per quantità di codici solo alla Commedia di Dante), 21 edizioni a stampa e molti rifacimenti. 21.750 ottosillabi per raccontare la storia della tormentata conquista della Rosa da parte dell’Amante. Allegoria dell’amore in tutte le sue forme, dalle più sublimi alle più mondane, ma anche opera enciclopedica, il Roman de la Rose non è un libro qualunque. Intanto perché viene abitualmente considerato opera di due autori, con le cautele del caso. Si tratta di Guillaume de Lorris, cui si devono i primi 4.028 versi, e di Jean de Meun, che avrebbe aggiunto la seconda parte, più lunga e digressiva, per completare l’opera che non era conclusa.
Di Guillaume, citato da Jean all’ingresso del personaggio-chiave Falso Sembiante, l’ipocrita per definizione, si conosce solo il nome, il che ha fatto pensare a qualcuno che sia un’invenzione di Jean realizzata ad arte per capovolgere l’ideologia cortese in un finto gioco (auto)parodico. Ma tutto sarebbe possibile, anche che il primo autore abbia portato a termine il romanzo e che il secondo l’abbia amputato del finale per completarlo a piacimento. Che non siano mai esistiti né l’uno né l’altro è l’ipotesi, anche autorevole, di chi pensa che ci sia un burattinaio che li muove.
Introducendo l’edizione Einaudi (traduzione con originale a fronte), Mariantonia Liborio, curatrice con Silvia De Laude, mette in campo queste possibilità, ma la versione più accreditata resta anche la più semplice: e cioè quella dei due autori. Un unico manoscritto riporta la sola parte di Guillaume, sei codici conservano continuazioni anonime, tutte precedenti quella di Jean de Meun, iniziata 40 anni dopo la morte del primo autore, avvenuta verosimilmente tra il 1225 e il 1230. A differenza di Guillaume, la figura di Jean dispone di elementi biografici certi: fu, tra l’altro, traduttore di Boezio e di Vegezio, ebbe rapporti stretti con Guillaume de Saint-Amour, a cui si affiancò nella battaglia universitaria parigina, di impronta «laica», contro gli ordini mendicanti; essendo definito «maistre» fu probabilmente un chierico uscito dalla Sorbona. Può darsi che Jean abbia trascorso la giovinezza a Bologna e buona parte della vita a Orléans (la stessa zona di Guillaume). All’interno del testo il dio d’Amore, che lo chiama Johan Chopinel (chope è la taverna), lo descrive come un goliardo dedito alle donne, alle bevute e al gioco.
I sogni, dunque. Il testo di Guillaume si apre con un io narrante che racconta di aver fatto un sogno e di volerlo mettere in rima (cinque anni dopo) per obbedire ai desideri di Amore; la visione onirica consiste nel viaggio intrapreso dal protagonista fuori dalla città per incamminarsi lungo un fiume e arrivare nei pressi di un giardino cinto da un alto muro merlato su cui si trovano raffigurate personificazioni anti-cortesi: Odio, Slealtà, Villania, Cupidigia, Avarizia, Invidia eccetera. Nel Giardino di Piacere l’Amante accede grazie a una bellissima fanciulla, Oziosa. Si apre così un panorama di meraviglie, tra suonatori, menestrelli e nuove figure allegoriche, da Bellezza a Cortesia, tutte dettagliatamente descritte: il protagonista arriva alla fonte di Narciso, luogo fatale d’iniziazione in cui due cristalli riflettono ogni parte del giardino, ma quando l’Amante tende la mano per cogliere un bocciolo di rosa viene fermato da sterpi e spine. È in quel momento che il dio d’Amore lo colpisce al cuore, facendolo innamorare della dama di nome Rosa. «L’idea geniale di Guillaume de Lorris — scrive Liborio— è quella di far giocare sulla scena del testo, dietro il velo dell’allegoria, i sentimenti e le emozioni che si danno battaglia nel cuore dei due giovani». Tra aiuti (Amico, Benaccolgo eccetera), vane speranze e nuove opposizioni, Ragione cerca di far riflettere il protagonista sui pro e i contro della sua ossessione, ma le cose si complicano dopo il primo bacio propiziato da Venere: Gelosia fa costruire una torre entro cui chiuderà Benaccolgo, sorvegliato dalla vecchia, e con la disperazione dell’Amante dinanzi alla fortezza si interrompe il poema di Guillaume.
Dopo il verso 4028, si inseriscono finali posticci in cui il protagonista arriva comunque a cogliere la rosa, ma con Jean de Meun la ottiene per via essenzialmente parodica. L’Amante cambia registro e dal pianto passa al pentimento e poi all’imprecazione: contro la maledetta Dama Oziosa, contro «l’orribile vecchia puzzolente e lercia», ma anche contro se stesso, colpevole di non aver avuto un’oncia di senno nel riporre la sua fiducia nel dio d’Amore. Sotto la «lente deformante» del secondo autore, il modello si dilata in antimodello, accumulando dotte disquisizioni filosofiche e politiche, nonché narrazioni colorite dove la favola allegorica si squarcia e il dettato assume una connotazione più profana con forti dosi di misoginia e di cinismo libertino. Il risultato complessivo è la giustapposizione, in un solo libro, di due culture e visioni del mondo in contrasto: a quella cortese (percepita da Jean come superata e insopportabilmente piagnucolosa) si oppongono la cosmologia neoplatonica e la prospettiva naturalistica improntata su Alano di Lilla, con l’innesto di violente prese di posizione contro francescani e domenicani, ipocriti e finti Buoni (tema eterno, che arriva intatto fino al recente libro di Luca Rastello).
L’innamoramento viene spogliato da Jean de Meun di ogni valore magico, è il prodotto di una falsa apparenza riflessa negli occhi, cioè l’esito di un fenomeno ottico (in ossequio alle tesi del fisico persiano Alhazen). In questo nuovo registro, Ragione può persino permettersi di accennare senza scandalo ai genitali maschili in senso proprio (coilles , ovvero «coglioni»), ottemperando al progetto di dire le cose col loro nome, senza infingimenti metaforici. Sulle questioni terminologiche e tecniche, sulle fonti spesso sapientemente rimescolate (da Platone alla latina commedia a Tibullo, Ovidio, Virgilio ai fabliaux), sul rapporto prospettico tra primo e secondo Roman , sulle varie ipotesi in gioco, sui debiti dovuti da molti poeti (da Villon in poi) a questa sorta di «tesoro» a cui attingere liberamente, si concentrano con puntualità le note poste in appendice al volume. Dove si troveranno gli elementi per leggere al meglio i comandamenti d’amore di Guillaume e i contro-comandamenti di Jean, a volte spossanti nella loro lungaggine, riscattata però non di rado da straordinarie trovate narrative.
Fa bene Liborio a segnalare nell’introduzione gli autentici pezzi di bravura di Jean de Meun, come quello in cui si presenta la vecchia mezzana che rimpiange la giovinezza e gli amori passati o quello in cui si inscena la corsa della Morte che insegue forsennatamente ogni individuo. La traduzione di Liborio è molto rispettosa dell’originale, pur con qualche peccato stilistico, come alcune cacofonie evitabili: per esempio nella bellissima sequenza sulla casa di Fortuna esposta ai flutti, in cui viene ripetuto il «contro» tre volte nel giro di pochi versi culminando in un «sempre le si scontrano contro» a fronte di un semplice «a lui se conbatent». Idem, poco più in là con il rincorrersi esorbitante di «forma», «riforma», «si trasforma», «forme». Resterebbero da dire molte cose sulla fortuna del Roman de la Rose. In primis , a proposito del Fiore, rifacimento toscano in chiave comica, 232 sonetti a opera di un Durante che Gianfranco Contini identifica con l’Alighieri. Il che dimostra come il poema francese avesse raggiunto una larga diffusione europea, confermata per altro dalla traduzione inglese di Chaucer e dalle accese «querelle» scatenate dalla sua inquieta lettura.
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