Fu l’occupazione della Libia a scatenare i nazionalismi nei Balcani
Luciano Canfora
“Corriere della Sera“, 10 gennaio 2014
L’anno appena incominciato sarà segnato da costanti riferimenti alla ricorrenza centenaria dello scoppio della Grande guerra (1914). Non si dovrebbe parlare di celebrazioni, anche se qualche tentazione in tal senso è prevedibile. Speriamo che l’involuzione intellettuale dispiegatasi in molti campi con la cosiddetta, e a torto esaltata, «fine delle ideologie» non porti ad un recupero del peggior patriottismo e riproponga la retorica della nostra entrata in guerra nel maggio 1915, dopo dieci mesi di neutralità, come «quarta guerra d’indipendenza»: definizione usuale nei manuali di storia di epoca fascista.
È ormai nota quasi in ogni dettaglio la storia del nostro cinico comportamento consistente nel mercanteggiare con entrambi gli schieramenti ormai in guerra il maggior lucro da trarre dall’uno o dall’altro eventuale alleato. (Ma eravamo legati ad un patto di alleanza con Austria e Germania, rinnovato ancora alla vigilia quasi del conflitto, il 5 dicembre 1912).
Il 6 maggio 1891 era stata già rinnovata la Triplice Alleanza (Italia, Austria, Germania). Il testo che ribadiva e ulteriormente rinnovava l’alleanza sanciva, all’articolo IX, che Germania e Italia «s’impegnano a mantenere lo statu quo nel Nord-Africa e in particolare in Cirenaica, Tripolitania e Tunisia» e che però, se – dopo maturo esame – Germania e Italia avessero constatato l’impossibilità di mantenere lo statu quo nella regione, la Germania si impegnava a sostenere l’Italia in qualunque azione «compresa l’occupazione di territori o altre forme di garanzia che l’Italia decidesse di intraprendere in quelle regioni».
Nel 1911 l’Italia invase la Libia, e nel protocollo del secondo rinnovo della Triplice (5 dicembre 1912) il punto 1 recitava: «Resta inteso che lo statu quo menzionato nell’articolo IX del Trattato implica la sovranità dell’Italia su Tripolitania e Cirenaica». Insomma i nostri appetiti coloniali venivano accontentati e assecondati dal partner più interessato – la Germania – alla spartizione coloniale dell’Africa: un aiuto fattivo e arricchito del costante riferimento alle eventuali «provocazioni» da parte della Francia.
Nei libri per le scuole in epoca fascista l’attacco italiano alla Libia veniva raccontato così: «Nel 1911, per rafforzare la sua posizione nel Mediterraneo, l’Italia si accinse, dopo una pacifica penetrazione, ad occupare la Libia, terra africana che comprende la Tripolitania e la Cirenaica, ed era sottoposta al governo dei Turchi»; «Ma la Turchia ancora non cedeva. Allora nella primavera del 1912 l’Italia portò la guerra nel Mare Egeo, dove occupò le isole del Dodecaneso e inoltre la grande e importante isola di Rodi, soggetta ai Turchi. A Losanna finalmente fu firmata la pace» (L. Steiner, «Nozioni di Storia, Geografia e cultura fascista per i corsi annuali di avviamento professionale, Paravia, Torino, 1937, terza ed., pp. 94-95).
Pur nella sua rozza faziosità, questa sintetica descrizione della vicenda fa emergere chiaramente l’effetto destabilizzante che le ripetute aggressioni italiane, in Nord Africa e nell’Egeo ebbero sugli equilibri sempre meno solidi dell’anteguerra. Quando poi la guerra esplose, piantammo in asso la Triplice che ci aveva appoggiati nell’avventura coloniale e puntammo sull’appoggio anglo-francese per sottrarre all’Austria terre tedescofone, e a tal fine cambiammo fronte. La politica italiana si inseriva comunque, e sia pure in modo aggressivo, dentro un più generale quadro di lotta inter-imperialistica per l’egemonia e per la spartizione del bottino coloniale. Tale infatti fu la Grande guerra, matrice perciò della più radicale crisi che l’Europa abbia mai attraversato (anche più violenta del 1848) e cioè il quinquennio 1917-1922, al termine del quale era cambiata la faccia, e la sostanza, dell’intero pianeta.
In che misura le avventure italiane furono il detonatore del conflitto? Due studiosi italiani, non nuovi ad imprese congiunte, Franco Cardini medievalista e Sergio Valzania polemologo, hanno studiato questo segmento tutto italiano dell’anteguerra in un libro imminente per la Mondadori, La scintilla: forse intenzionale allusione alla testata del giornale di Lenin, «Iskrà». Titolo appropriato, perché l’inchiesta storiografica che essi hanno svolto ha fatto emergere la concatenazione di avvenimenti che conduce, a partire dall’invasione italiana della Libia, alla deflagrazione della grande crisi. L’attacco italiano all’impero ottomano infatti innescò una reazione a catena inducendo anche le piccole potenze balcaniche a pretendere, a danno del «grande malato» come allora veniva chiamato l’impero euro-asiatico, incrementi territoriali. Presto si mossero Bulgaria, Serbia, Montenegro, e anche la Grecia. Dopo due «guerre balcaniche», nella seconda delle quali intervenne anche la Romania, la Serbia ebbe quasi raddoppiato il suo territorio: era ormai la più grande delle piccole potenze regionali, per adoperare un’antica formula delle Lettere slave di Mazzini. Era insomma la principale spina nel fianco dell’Austria.
E la Grande guerra partirà appunto di lì: dallo scontro, drammatizzato al massimo dalla corte di Vienna dopo l’attentato di Sarajevo, tra l’Austria e la Serbia. La quale, dopo il crollo austro-tedesco del novembre 1918, diventerà la grande Jugoslavia (denominazione assunta ufficialmente nell’ottobre del 1929), risultando così la vera vincitrice degli interminabili conflitti balcanici dell’anteguerra. E intanto — non senza un conflitto locale con la Grecia — verrà a maturazione anche il tracollo della vecchia impalcatura imperiale ottomana e sorgerà, ridimensionata territorialmente, una nuova Turchia laico-parafascistica sotto la guida di Kemal Atatürk, dal 1921 capo carismatico a vita della risorta Turchia. Alla luce di questo vasto e consequenziale sviluppo, non appare dunque affatto improprio definire «scintilla» di tutto ciò la deplorevole avventura giolittiana nel «Bel suol d’amore» della Tripolitania.
I due autori della Scintilla hanno brillantemente assolto al loro compito, e il lettore è grato. Ma lasciano nell’aria una domanda sulla possibilità stessa di individuare una sola «scintilla». Naturalmente essi seguono un filo molto articolato e coerente. E tuttavia, nella comprensione dei fatti storici, può apparire piuttosto unilaterale il privilegiamento di una «causa». Anche il grande Tucidide si trovò di fronte ad una grande guerra, incominciata anch’essa con un conflitto locale (tra Corinto e Corcira) e via via cresciuta su se stessa fino a coinvolgere, come egli scrive all’inizio della sua opera, «la gran parte dell’umanità». Tucidide non smise di indagare sulle cause, e, man mano che la guerra si ingigantiva, di porsi sulle tracce delle cause «vere». Il frutto di tali ricerche occupa un intero libro, il più lungo degli otto che compongono l’opera. Alla fine si convinse di averla scoperta, la «causa verissima e inconfessata», come egli la chiama: il conflitto di potenza, la lotta per l’egemonia tra le grandi potenze. Gli Spartani — scrive — si convinsero che la guerra fosse inevitabile perché Atene era ormai diventata troppo forte.
Si potrebbe dire che c’è un che di tautologico in questo tipo di spiegazione. Ma c’è anche la presa d’atto dell’insufficienza delle spiegazioni settoriali, parziali, uniche. La guerra del 1914 fu «inevitabile» per le stesse ragioni per cui lo fu la guerra del Peloponneso. E speriamo che le grandi potenze che oggi si fronteggiano nell’Oceano Pacifico non giungano prima o poi ad analoghe, irreparabili, determinazioni.
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