domenica 5 gennaio 2014

La dignità non è il rango


Da Cicerone ai diritti umani e alla bioetica: 
un concetto analizzato da Michael Rosen, che pone al centro la figura di Kant

Remo Bodei

“Il Sole 24 Ore - Domenica“, 5 gennaio 2014

Sebbene il concetto della dignità abbia una lunga storia, il pathos che lo circonda è abbastanza recente. Si rafforza dopo la fine della seconda guerra mondiale, come se si volessero esorcizzare per il futuro gli orrori dei campi di sterminio nazisti, mettendo gli uomini al riparo della sua egida. Essa viene intesa non solo quale espansione della sfera del sacro dalla divinità all'umanità (mediante il richiamo alla tradizione ebraico-cristiana, secondo cui l'uomo è stato creato da Dio a sua «immagine e somiglianza»), ma anche quale corazza protettiva, etica e giuridica, tesa a garantire l'intangibilità, l'autonomia e la libertà di individui e popoli, sottraendole così alla brutalità della violenza, dell'oppressione e dell'umiliazione. Dal punto di vista giuridico il legame tra dignità e diritti è stato solennemente proclamato dal Preambolo della Carta delle Nazioni Unite del 1945, dalla Dichiarazione generale dei diritti umani delle Nazioni Unite del 1948 e dalla costituzione della Repubblica Federale Tedesca.
Il riferimento alla dignità si è poi ulteriormente intensificato a causa del moltiplicarsi degli episodi di disumanità venuti tardivamente alla luce o nuovamente perpetrati (ma, in positivo, anche in funzione del l'esigenza di rafforzare il bisogno di maggiore eguaglianza e di consolidare la ricezione dei diritti umani). Le memorie dei condannati nei gulag sovietici e la visione delle piramidi di teschi innalzate dalla politica di Pol Pot o dalle feroci guerre interetniche del Rwanda (dove gli Hutu trattavano i Tutsi come "scarafaggi") si sono così sommate alla ripresa e alla difesa di pratiche che si credevano scomparse, almeno in alcune parti del globo. È questo il caso della tortura, nuovamente giustificata come strumento per combattere il terrorismo e per estorcere informazioni in vista della salvezza di molte vite.
Malgrado il crescente interesse che ho appena illustrato per l'importanza e il valore della dignità, la filosofia – secondo Michael Rosen – se ne è interessata davvero poco (tra le tante ricordo però sia l'opera, non citata, di George Kateb, Human Dignity, Harvard University Press, 2011, sia quella, ormai classica, di Miguel de Unamuno, La dignidad humana). Assieme a molti studiosi di altre discipline, quando se ne sono occupati i filosofi hanno per lo più ritenuto il suo uso un inutile fattore di confusione e hanno proposto di sostituirla con la nozione di «rispetto per le persone e per la loro autonomia».
Da cosa nasce, dunque, il discredito dell'idea di dignità, si chiede Rosen nel rintracciarne la prima espressione in Schopenhauer, di cui riassume la tesi dicendo che essa rappresenta «un mero imbroglio, un ampolloso artificio, che lusinga la nostra autostima, ma dietro al quale non c'è alcuna sostanza»? Da tale interrogativo parte un'analisi ben documentata e argomentata dello sviluppo di questo concetto da Cicerone ai giorni nostri, i cui ci si sofferma, in particolare, sul cammino che la Chiesa cattolica ha compiuto negli ultimi decenni. Dopo che il cristianesimo aveva, infatti, a lungo inteso la dignità come rango sociale – del resto in sintonia con il significato che il termine aveva nel latino tardo, ad esempio nella Notitia dignitatum del IV-V secolo, che contiene l'elenco dei funzionari imperiali civili e militari – o la aveva messa in rapporto, con Leone XIII, alla gerarchia, per cui il «marito è il principe della famiglia e il capo della moglie», ma «in modo tale che la soggezione che ella rende a lui non sia disgiunta dal decoro né dalla dignità», Giovanni Paolo II la cita ripetutamente per difendere l'inviolabilità della vita umana dal concepimento alla morte, negando quindi l'aborto e l'eutanasia.
La filosofia di Kant costituisce la stella polare che guida il libro di Rosen. Egli, sostiene, ha avuto il merito di estendere il concetto di dignità a tutti gli uomini, assegnando loro un valore intrinseco, incommensurabile e assoluto, anche sulla base del principio che si devono trattare gli uomini sempre come fini e mai esclusivamente come mezzi. Ma chi decide qual è il fine e qual è il mezzo? Rosen ricorda a questo proposito la lunga battaglia legale di Manuel Wackenheim, un nano che si prestava ad essere lanciato tra gli avventori di una discoteca, un gioco che appariva alle autorità francesi contrario alla sua dignità, ma una attività che egli rivendicava come un suo diritto, che non venne peraltro riconosciuto. E poi l'idea di dignità vale anche per i «feti e ai cadaveri»?
La teoria di Kant si differenzia da altre, ad esempio, da quella di Tommaso d'Aquino per cui la dignità riguarda tutti gli esseri viventi (comprese le piante), in quanto creature di Dio, da quella di Hobbes che non equipara dignità e prezzo o da quella di Schiller per cui è spontanea «tranquillità nella sofferenza». I limiti individuati da Rosen nel modello kantiano sono relativi, in primo luogo, a una certa santificazione della «legge morale in noi», cui va il rispetto (e, quindi, non agli uomini in quanto tali, bensì solo in quanto veicolano la legge morale e sono capaci di metterla in pratica); in secondo luogo, al disconoscimento del ruolo della sofferenza, subita o inflitta; in terzo luogo, all'indeterminatezza dei criteri attraverso cui si passa dai principi generali alla concreta azione morale.
La conclusione tratta da Rosen è che «è possibile dover rispettare la dignità umana senza sottoscriverne né l'umanesimo (ogni cosa che è buona lo è solo perché benefica un essere umano) né il platonismo (vi sono delle cose eterne dotate di valore intrinseco verso le quali dobbiamo agire con rispetto e devozione)».
In Kant egli non può, tuttavia, fare a meno di ammirare la condotta che si rivela anche in questo aneddoto: «Nove giorni prima della sua morte Kant, pur essendo molto anziano ed estremamente debole, rifiutava di sedersi prima che il suo ospite (il suo medico) si fosse seduto a sua volta. Quando venne infine convinto a farlo, disse: "Das Gefühl für Humanität hat mich noch nicht verlassen" ("Il sentimento dell'umanità non mi ha ancora abbandonato")».

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