Dalla serie tv cult “Breaking Bad” al film di Ridley Scott
“The Counselor” il crimine paga Anche i conti della crisi
Giancarlo De Cataldo
“La Repubblica“, 16 gennaio 2014
Walter White, protagonista di Breaking Bad, osannata serie TV americana, è un mite professore di chimica di mezza età che scopre di avere un cancro devastante e diventa un grande produttore di metanfetamina. In The Counselor, il film di Ridley Scott sceneggiato da Cormac McCarthy, Michael Fassbender è un avvocato di successo che, per avidità, si mette in affari coi narcos. Due eroi negativi che dovremmo esecrare. Invece ci seducono con il loro fascino nero. Stiamo con loro, anche se si macchiano di crimini orrendi e nella vita di ogni giorno ci guarderemmo bene dal frequentarli. Perché?
Le macchine narrative, quando sono ben fatte, agiscono a un livello più profondo. Entrano in risonanza con la nostra emotività. E grazie a loro apprendiamo rivelazioni inquietanti sulla realtà che ci circonda. È una realtà che ci offre continuamente film senza lieto fine. I nostri non arrivano mai in tempo. Per credere nell’avvento di un qualche salvatore bisognerebbe riporre un minimo di fiducia nelle capacità di autorigenerazione del sistema. O, per meglio dire, del mercato, che è l’unico valore ideologico oggi universalmente riconosciuto. Dovremmo raccontarci un’altra storia: il mercato, forza buona, è inquinato dal lato oscuro (narcos, faccendieri, truffatori, raiders).
A un certo punto scenderanno in campo i Jedi e rimetteranno le cose a posto. Sarebbe una storia fasulla. La gente non ci crede più. Gli artisti più sensibili si fanno interpreti di questo scetticismo.
Breaking Bad e The Counselor ci sbattono in faccia la necessità dell’essere malvagi. Tutto, a prima vista, affonda radici nella crisi dello stato sociale. Walt White non può curarsi perché glielo impedisce una sanità perversa. Tanto perversa che gli americani sono convinti in maggioranza della sua validità: paradosso relativo, in un contesto puritano. Dio ti ha dato la salute perché ti vuol bene, se te la leva è perché devi aver commesso qualche peccato, e perché dovrei pagare io, che sono sano, per la tua malattia? A Walt si rompe qualcosa dentro. L’apologia della malvagità si fa critica radicale. Il Procuratore Fassbender, invece, è mosso dall’avidità. Ma è anche lui, a suo modo, una vittima della crisi. L’acuirsi del divario fra ricchi e poveri ha scavato un fossato tra due mondi che ragionano in termini di inclsione/esclusione. O dentro o fuori. E se per essere dentro bisogna darsi al crimine, anche questa è una forma di malvagità necessitata.
Il collante comune è la droga, potente motore dell’economia. Da tempo si fa un gran parlare dello shadow banking. Gli organismi internazionali hanno raccomandato massima vigilanza su questa zona grigia nella quale proliferano i fondi speculativi e operano soggetti che paiono sfuggire a ogni controllo. Da più di un centro finanziario si sono levate proteste raggelanti: vigilanza, certo, ma senza esagerare. Quei soldi ci servono, fanno bene al sistema. Il mercato ha perso ogni capacità di badare a sé stesso (ammesso che ne abbia mai posseduta una). Le regole che sovrintendono al traffico di strada e alla circolazione dei profitti ad alto livello sono sovrapponibili. La droga è la scorciatoia per il successo. Ma non è tutto qui. Sia nella serie che nel film di Scott, la critica sociale trasfigura in una dimensione dichiaratamente mitologica. La droga assume l’aspetto di un tramite con la divinità, come nel “soma” del mondo antico o nei rituali sciamanici. È potere ed è libidine, la droga. Se sostituiamo a una qualunque divinità dello sterminato pantheon religioso il Dio Denaro, i termini dell’equazione non cambiano. E la droga diventa il canale diretto che collega i sacerdoti della nuova ecclesia mercantile all’uno e indiscusso Moloch sociale.
Questi racconti sul Male mettono in scena memorabili bastardi, ma in realtà parlano di noi gente comune. Della nostra fragilità d’animo. Della nostra incapacità di fronteggiare la deriva. L’insospettabile affarista in guanti di velluto e il sicario che tortura e squarta a mani nude gli altri disgraziati come lui militano nella stessa paranza e ne sono tutti perfettamente consapevoli. Anche se i più beneducati cercano di nasconderlo, soprattutto a sé stessi. Perciò, paradossalmente, i buoni ci danno il cattivo esempio: perché ci ingannano, illudendoci che possa esistere un lieto fine. Ma attenzione. I “cattivi”, rispetto a noi, hanno un’arma in più: credono in sé stessi e nella strada che hanno scelto di percorrere. Sono cacciatori, e non hanno bisogno di giustificarsi. Né di provare pietà per la preda. «Il cacciatore ha una purezza di cuore che non esiste da nessun’altra parte», recita Cameron Diaz nel finale di The Counselor, «noi naturalmente siamo un’altra storia. Sospetto che siamo inadatti per la strada che abbiamo scelto. Vorremmo stendere un velo su tutto questo sangue e questo terrore. Ma non c’è niente di più crudele di un codardo, e probabilmente il massacro che verrà supera la nostra immaginazione». Come per il mite chimico Walter White e per l’ambizioso Procuratore, è dunque troppo tardi per tirarsi indietro?
Quando la malvagità si fa criterio di lettura del contemporaneo, c’è forse solo spazio per una dolente mediazione. E un mediatore è il protagonista di La trasmigrazione dei corpi, folgorante romanzo breve del messicano Yuri Herrera (di prossima uscita per Feltrinelli). In una città sconvolta da un’epidemia, forse provocata ad arte dal governo per costringere la brava gente a starsene chiusa in casa, i mediatori trattano la restituzione dei corpi dei caduti nelle narcofaide. La loro è un’anomala forma di pietas: la stessa del soldato giapponese che si fa bonzo nel capolavoro di Ichikawa, L’Arpa Birmana. Un compito che può apparire insensato, perché la violenza sembra fuori controllo. Eppure, in questa insensatezza c’è un grido di dolore che sembra indicare l’unica strada possibile: deporre le armi, e, nell’attesa, organizzare una nuova, più convinta rinascita etica.
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