Il saggio di Alberto Castoldi sulla raffinata figura letteraria
Benedetta Craveri
“La Repubblica“, 16 gennaio 2014
Viaggiare, camminare, passeggiare, errare, vagabondare: ciascuno di questi termini d'uso corrente ha rivestito, a seconda delle epoche, significati molto diversi. Per secoli, prima ancora di indicare un percorso geografico, il viaggio ha rappresentato la metafora per eccellenza della condizione umana: il cammino periglioso che attendeva il cristiano nel corso della sua avventura terrena nella speranza di varcare un giorno le porte del regno celeste o, più laicamente, il processo di conoscenza attraverso cui ciascun individuo poteva elaborare le sue strategie di vita. Così, prima di indicare, in età romantica, il drammatico vagabondare dell'uomo diventato estraneo alla società come a se stesso, l'errance ha costituito per il cavaliere cortese la prova iniziatica necessaria a dimostrare il proprio merito. Mentre è Jean-Jacques Rousseau nelle Confessioni di un passeggiatore solitario a teorizzare per primo una nuova forma di sensibilità che trasforma la passeggiata da pratica sociale in simbiosi con la natura, meditazione interiore, incontro con il divino.
È alla rivisitazione di una forma di passeggiata di segno opposto a quella illustrata da Jean-Jacques che Alberto Castoldi dedica oggi il suo ultimo saggio, Il flâneur. Viaggio al cuore della modernità. Traducibile solo per approssimazione - un perdigiorno che passeggia senza una meta precisa in mezzo alla gente-, il flâneur è innanzitutto una figura letteraria tenuta a battesimo dai grandi scrittori francesi dell'Ottocento, da Hugo a Balzac, a Baudelaire, ma anche da Edgar Allan Poe, non a caso « il più francese degli scrittori americani». L'importanza del flâneur viene dalla sua capacità di osservare la città e la folla che la abita, ma la natura e le finalità del suo operato variano. Per Balzac «flâner è una scienza, è la gastronomia dell'occhio, significa vivere, godere...immergere i propri sguardi in fondo a mille esistenze», è insomma la metafora stessa della creazione romanzesca. In Poe, invece, il flâneur si spoglia della sua intelligenza critica, trasformandosi, come annuncia il titolo del suo racconto, ne L'uomo della folla di cui sposa le pulsioni più inquietanti.
È però con Baudelaire, come ricorda Castoldi, che il flâneur subisce una radicale metamorfosi e, alter ego del poeta, si investe della «missione di farsi testimone e quindi interprete di una Modernità che è da lui stesso creata perché, data la rapidità delle sue manifestazioni, richiede uno sguardo che la fissa senza snaturarla, testimoniando paradossalmente della sua «inattingibilità» e della sua frammentarietà ». E poiché questa modernità ha come habitat naturale la folla, «sposarsi alla folla», «prendere dimora nel numero, nell'ondeggiante, nel movimento, nel fuggitivo e nell'infinito», appare a Baudelaire la condizione per eccellenza dell'artista.
Ottant'anni dopo sarà Walter Benjamin, nel solco tracciato dal poeta dei Fiori del male, a evocare materialmente e mentalmente, nei suoi celebri Passages di Parigi, i luoghi di memoria della capitale francese per meglio riflettere sulle metamorfosi della modernità. Questa volta non è più il flâneur a «possedere» la città ma ad essere prigioniero delle sue articolazioni labirintiche, mentre le strade sono diventate pure esposizioni di merci e la folla stessa si è trasformata in merce.
Se Baudelaire e Benjamin sono ovviamente al cuore del saggio di Castoldi, lo studioso, con l'originalità e la cultura che gli sono proprie, ce ne ripropone la lettura a partire dall'atto fondatore costituito dallo sguardo selettivo dell'artista. Facendosi egli stesso flâneur Castoldi ci invita a seguirlo, sul filo tipicamente baudelairiano dell'analogia, lungo un percorso che dall'Ottocento giunge ai giorni nostri. Una flânerie che rivisita romanzi, poesie, esposizioni universali, arti figurative, fotografia e cinema, sollecitando la nostra memoria, stimolando la nostra curiosità e suggerendoci nuove letture.
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