Manuele Fior |
La Poesia del Mondo
Walter Siti
“La Repubblica“, 5 gennaio 2014
La vita fugge e non s’arresta un’ora,
e la morte vien dietro a gran giornate,
e le cose presenti e le passate
mi danno guerra, e le future ancora;
e il rimembrare e l’aspettar m’accora,
or quinci or quindi, sì che in veritate,
se non ch’io ho di me stesso pietate,
io sarei già di questi pensier fòra.
Tornami avanti, s’alcun dolce mai
ebbe il cor tristo; e poi da l’altra parte
veggio al mio navigar turbati i venti;
veggio fortuna in porto, e stanco omai
il mio nocchiero, e rotte àrbore e sarte,
e i lumi bei, che mirar soglio, spenti.
Non è un sonetto perfetto e questo commuove in un poeta che è stato modello di perfezione per alcuni secoli. “In veritate" è superfluo, è quello che in un poeta mediocre si chiamerebbe una zeppa. “ Or quinci or quindi”, “e poi da l'altra parte” sono precisazioni pesanti; nei primi cinque versi si ripete per sette volte la congiunzione “e”, il ritmo si trascina; tutùm tutùm, le due quartine replicano monotone una cantilena binaria. Quando si sta troppo male anche la forma passa in secondo piano e non si bada alle contraddizioni.
Si parte da un luogo comune della letteratura classica, il lamento sulla brevità della vita, per trasformarlo dopo due versi in un amaro bilancio personale. L'immagine è militaresca: la morte insegue la vita come un esercito che si affretti a marce forzate per incalzare il nemico che fugge; in mezzo c'è l'io, desolato campo di battaglia, offeso in ogni direzione, dal passato come dal futuro per non parlare del presente. Niente gli sorride, nei il ricordo né la speranza, anzi tutto gli dà dolore tanto che medita il suicidio. «lo mi sarei già tirato fuori da questi cupi pensieri, se non fosse che ho pietà di me stesso». I suicidi secondo i cattolici vanno all'inferno e Petrarca ci credeva, dunque vuole risparmiare a se stesso quella fine - mia se uno sta così male che vuole suicidarsi, perché si lamenta della brevità della vita?
La depressione non è un'esclusiva dell'uomo contemporaneo: anche gli antichi conoscevano quel velo nero che scende improvvisamente sull‘anima e ci fa odiare il mondo e vedere di ogni cosa il lato peggiore - e odiare il nostro stesso odio e contemporaneamente crogiolarci in esso come se la mancanza di volontà fosse diventata il nostro centro d'equilibrio. Solo che non la chiamavano depressione e non la cura vano con gli psicofarmaci: la definivano accidia ed era uno dei sette peccati capitali. Qui Petrarca ha pietà di sé stesso anche nel senso che si compiange, come è tipico dei depressi; e come fanno i de pressi, invece di ovviare alla contraddizione ribadisce il già detto con puntigliosa insistenza: «mi tornano in mente le eventuali gioie che il mio povero cuore ha potuto godere nel passato, e vedo che tutto è contrario alla mia navigazione futura» - altro stereotipo letterario, l'io come nave e il mondo come tempesta.
Quando un po‘ d'anni prima ha immaginato di dialogare con sant'Agostino, Petrarca dichiarava di voler spezzare il laccio del desiderio per rifugiarsi in un porto di salvezza: ma ora la tempesta (il “fortunale") è entrata fin dentro al porto, non ci si salva più; e la ragione (il nocchiere) è stanca di lottare, la forza di volontà (l'albero maestro) è spezzata, la voglia di relazioni (le sàrtie, i cordami) è logora. Nel sonetto che precede immediatamente questo, il 271, e anche nella canzone 270; Petrarca ci ha parlato della tentazione di un flirt per una donna diversa da Laura; rivolgendosi ad Amore gli ha detto francamente «sono troppo vecchio ormai, se vuoi prendermi al laccio un’altra volta dovresti resuscitare Laura». Il ciceroniano chiodo-scaccia chiodo non lo convince: a cinquant'anni allora si era vecchi, il nuovo amore non sarebbe che un surrogato. Per un gioco fatale del caso anche questa seconda donna è poi morta. Qui, nell'ultimo verso del nostro sonetto, gli “occhi belli” sono certamente quelli di Laura, essi soltanto erano come stelle che potevano illuminare il cammino e adesso sono spenti. “Soglio” per la lingua trecentesca può funzionare da imperfetto, equivale a “solevo”; ma funziona anche, eccome, da presente: “gli occhi che ero solito guardare e che continuo a guardare nonostante tutto”. E che magari ogni tanto cerco nei surrogati. Ecco il nodo, l'io non smette di desiderare nonostante l'età, il desiderio si configura come un'ossessione senza uscita.
Sant'Agostino gliel’aveva pur detto, che gli occhi di Laura l'avevano rovinato deviandolo dal Creatore alla creatura e spingendolo in un “bellissimo baratro” - se è così, perché continuare a evocarli e a rimpiangerli ? L'ossessione se ne frega delle contraddizioni morali come di quelle logiche, e desiderare di non desiderare è pur sempre un desiderio. Sant'Agostino alla fine del dialogo aveva allargato le braccia, sconfortato.
Dante no, lui incontrando Beatrice in Purgatorio al desiderio ci ha dato un taglio veramente, gli occhi che vede ormai sono “occhi santi”, illuminati da un’altra bellezza non più umana. Si è pentito, convertito, ha bevuto l'acqua che fa dimenticare. Altro clima culturale e altra tempra: anche l'accidia per Dante è rabbia, mordersi e farsi a pezzi, medievale spettacolo comico e grottesco. Petrarca invece è l'inventore della lirica moderna, quella che afferma e nega allo stesso tempo cullandosi nel circolo vizioso dei propri paradossi. Il ritmo accelera nelle terzine, si spezza, accumula metafore fino a un ultimo singulto finale, “ spenti”, che è quasi un orgasmo. Un’estrema disperazione è ancheun possesso. La bellezza sconfigge la verità: il perfetto corpo femminile che lo ha ossessionato per tutta la vita non è nemmeno nominato, eppure c'è quello all'origine della depressione – altro che gli occhi della Vergine alla fine del Canzoniere: di Laura non si fa il nome ma la lirica fa guadagnare l'allora poetico, cioè il lauro. La lirica moderna prende il posto della religione e del sesso, abituandoci a ingannare noi stessi con una parola che è canto.
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