Armando Massarenti
“Il Sole 24 Ore - Domenica“, 5 gennaio 2014
«Ora volgi la mente al mio ragionare verace: una cosa mirabilmente nuova sta per giungere alle tue orecchie e un nuovo aspetto della natura vuole a te rivelarsi. Ma non c'è cosa tanto facile che da principio non sia più difficile a credersi, e similmente nulla è tanto grande e meraviglioso che a poco a poco tutti non cessino di stupirsene. Pensa al colore luminoso e terso del cielo, e ai corpi che in sé racchiude, alle stelle che vagano in ogni sua parte, alla luna e al sole splendido di intensissima luce; se tutti questi oggetti apparissero ora per la prima volta ai mortali, se d'improvviso si offrissero inattesi al nostro sguardo, quale cosa si potrebbe immaginare più meravigliosa di questa?». Che brivido ci regala Tito Lucrezio Caro, il più misterioso e – stando alla tradizione – infelice tra i poeti latini, reso folle da un filtro d'amore, incastonando nel cuore del suo poema filosofico De rerum natura, splendido viaggio iniziatico tra gli insegnamenti del maestro Epicuro, questo invito allo stupore che è al contempo utile esercizio di saggezza e straordinaria rivoluzione dello sguardo. «Che emozione!», «Che tuffo!», per dirla con Clarissa, l'eroina di Virginia Woolf, rimasta incantata anche lei di fronte alla meraviglia – per noi quotidiana perciò, ingiustamente, trascurata – dell'universo, nella famosa mattina «fresca come se fosse scaturita per dei bambini su una spiaggia» che sembra sorgere luminosissima, come una vera e propria apparizione, dalle prime pagine di Mrs. Dalloway. Grande lezione della filosofia epicurea, e delle scuole antiche in genere, è imparare a vivere il proprio presente come se il mondo lo si vedesse per l'ultima volta, come se ogni singolo istante fosse l'ultimo. Ma una lezione ancora più grande è vivere ogni istante come se fosse... il primo. Cioè con gli occhi ingenui dei bambini sulla spiaggia, sbalorditi per ogni piccola o grande manifestazione del mondo, liberandoci quindi della visione convenzionale e abitudinaria che abbiamo delle cose. Questo è il più profondo, e trascurato, monito racchiuso nei versi di Lucrezio, fedele interprete del maestro Epicuro: «io seguo te, gloria della greca gente... Non appena la tua ragione comincia a proclamare la natura dell'universo... le barriere del mondo dileguano, per lo spazio immenso... Dinanzi a queste cose, subito, non so che divino piacere e un brivido mi afferra, perché dal tuo genio natura è così disvelata in ogni parte e tanto manifesta a noi s'apre». È il «sentimento cosmico», lo «sguardo dall'alto» di cui parla Pierre Hadot, lo stupore di fronte al fatto stesso che l'universo, che la vita umana, esistano. In tutta la loro intricata, a volte splendida a volte risibile, complessità. Non era ignoto a Lucrezio, né a Wittgenstein, né a Goethe, né a Baudelaire, che immaginava nella poesia Elevazione di librarsi al di sopra della varietà del mondo, «al di là dei confini delle sfere stellate», per carpire chissà quale significato profondo, dell'esistenza o di sé. Ora, provatelo anche voi.
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