Vittorio Zucconi
“La Repubblica“, 11 gennaio 2014
«Dall’alto della propria torre orgogliosa la Morte guardò il suicidio dell’isola nel mare ai suoi piedi». Fu questo verso di Poe che la storica Barbara Tuchman scelse per narrare il secolo del suicidio europeo cominciato nel 1914, l’anno fatale nel quale il continente più prospero, colto, sviluppato, civile, più egemone che il mondo avesse mai conosciuto, decise, per ragioni ancora inspiegabili, di autodistruggersi. L’Europa fu il Cavallo di Troia di se stessa. Implose — senza invasioni né attacchi, né orde di barbari — spalancando le porte della storia al Secolo Americano.
È difficile, per noi che abbiamo conosciuto soltanto l’Europa della miracolosa, e ora claudicante rinascita un secolo dopo quel 1914, comprendere quanto assoluta fosse la supremazia del nostro continente sul pianeta. E quanto improbabile apparisse in quell’anno la «marcia dei sonnambuli» — secondo la definizione di Christopher Clark a Cambridge — verso l’abisso. Chi lamenta la globalizzazione di oggi, non sa quanto già globale fosse il mondo della Belle Époque e profonda l’interdipendenza fra le nazioni del Vecchio Continente. Basteranno due cifre per dare la misura dello strapotere europeo: il 67 per cento della produzione industriale mondiale veniva da qui; l’80 per cento delle flotte militari e commerciali batteva bandiere europee.
Una guerra fra le corone, tutte posate sulla testa di parenti, cugini e cognati, e l’unica grande repubblica del tempo, la Francia, appariva anche più assurda di quanto possa sembrare oggi alle legioni di ragazzi che sciamano da un’università all’altra sotto il segno di Erasmo, ai turisti che salgono e scendono da voli low cost e treni superveloci, che passeggiano lungo le rive del Reno, della Mosa, della Vistola dopo avere attraversato frontiere di garitte vuote o bunker ormai coperti di edera. In un best seller del tempo, il Nobel per la pace sir Norman Angell poteva scrivere nel 1910 che la devastazione del credito e della finanza avrebbero impedito lo scoppio di una guerra o ne avrebbe reso brevissima la durata, nella solita fiaba del “tutti a casa per Natale”. Ironicamente, il titolo del suo saggio, La grande illusione, sarebbe divenuto un indimenticabile film contro la guerra. Ma Angell non avrebbe potuto immaginare che la rivoltella di un allucinato nazionalista serbo-bosniaco, Gavrilo Princip, contro l’erede al trono degli Asburgo Francesco Ferdinando a Sarajevo avrebbe messo in moto «la marcia dei sonnambuli» destinata a durare per l’intero «secolo breve», come lo chiamò Eric Hobsbawm. La stampa Usa, di fronte al clamore suscitato da quel-l’assassinio, si concesse addirittura qualche ironia. L’Heralddi New York scrisse che «con tutti i duchi e gli arciduchi che hanno in Europa, uno in meno non può fare grande differenza». Cento anni dopo, e ben più di cento milioni di morti direttamente o indirettamente attribuibili a quell’«arciduca in meno», storici della guerra come John Keegan si chiedono addirittura se non sia stata la farraginosità e la lentezza delle comunicazioni fra Cancellerie, non ancora adeguata alla velocità del telegrafo, dei telefoni già esistenti in cavi sottomarini, della neonata radio, a scatenare la reazione a catena.
Ma ciò su cui nessuno ha dubbi è il meccanismo di azioni e reazioni, catastrofi e vendette, conti di sangue lasciati in sospeso, che avrebbe prodotto la Guerra dei Trent’anni europea, chiusa soltanto nel maggio di trentun anni dopo per poi congelare il continente nella glaciazione del conflitto ideologico fra Est e Ovest. Tutto quello che sarebbe accaduto nella Seconda guerra, e nel lungo Dopoguerra che ancora tocca con le proprie dita gelide i rapporti fra Russia e Occidente, ha le proprie radici in quelle giornate di agosto 1914. Le mostruose tecnologie di morte usate nella Seconda guerra hanno il Dna nella Prima, i bombardamenti aerei, i tentativi di estendere la sofferenza alle popolazioni civili colpendo Parigi con supercannoni dalla gittata di 130 chilometri, i panzer, i primi rudimentali missili usati per abbattere palloni aerostatici e dirigibili. E i gas letali che dalle trincee sarebbero passati direttamente alle camere dello sterminio nazista e, ancora oggi, sostanzialmente identici, ai massacri in Siria.
Molti, se non tutti, i protagonisti, della Seconda guerra, erano figli della Prima. Churchill, Lord dell’Ammiragliato fino al 1915; Gamelin, vincitore della prima battaglia della Marna nel 1914 e poi disastroso comandante supremo dell’Armée francese nel 1940; Hitler, reduce rancoroso e ferito nelle trincee del fronte occidentale; Zhukov, il conquistatore di Berlino, decorato sui campi del 1915 contro le armate del Kaiser; Badoglio, vincitore del Sabotino e poi Capo di Stato Maggiore per la sciagurata offensiva contro la Grecia del 1940. E naturalmente Mussolini, ferito sul Carso da una bomba durante un’esercitazione.
Insieme con il cumulo di macerie, cadaveri, di immensi danni economici che dimezzarono le capacità industriali di nazioni come la Germania e divorarono una generazione di giovani uomini che in Francia lasciarono, nel 1918, una proporzione di sei donne per quattro maschi e centinaia di migliaia di invalides, l’eredità più sottilmente velenosa di quel 1914 fu quella che John Keegan definì «la militarizzazione della politica». Nei totalitarismi prodotti dalla guerra, dove le ideologie e i partiti erano stati messi in divisa restò, e ancora sotto pelle sopravvive, «il morso dell’odio per il nemico e quel risentimento — scrive sempre Keegan — che è sempre veloce nell’azzannare e lentissimo nel lasciare la preda ». Dovette essere l’America, due volte strappata al sonno del suo isolazionismo, a impedire alla Terra Madre di precipitare in un abisso senza ritorno.
Oggi quel campo della morte che fu l’Europa è silenzioso. Ma la Signora di Edgar Allan Poe, alta sulla propria gigantesca torre, osserva l’isola nel mare ai suoi piedi e aspetta paziente.
1914-2014
Senza guerra né pace
Lucio Caracciuolo
Cento anni fa scoppiava la «guerra per finire tutte le guerre», come la definì già nell’agosto 1914, in una fortunata serie di articoli poi raccolti in libello, lo scrittore britannico Herbert George Wells. Sentenza degna del padre fondatore della fantascienza, resa poi celebre da un leader politico molto immaginifico, il presidente americano Woodrow Wilson.
Da allora il mondo ha conosciuto centinaia di conflitti, di cui almeno una cinquantina ad alta o media intensità, che hanno falciato almeno centotrenta milioni di vite umane, oltre la metà delle quali nelle due guerre mondiali (quindici nella Prima, sessanta nella Seconda). Attualmente sono in corso una decina di conflitti che producono più di un migliaio di morti all’anno. Il più tragico è quello di Siria: oltre centotrentamila morti. La tendenza umana ad annientarsi reciprocamente per quote di potere, territorio e ricchezza — e per qualcosa che usiamo chiamare “onore” — visibile fin dall’alba della storia, ha avuto ragione dell’ottimismo di Wells.
Ma come è cambiata la guerra, dalla Grande Guerra a oggi? Molto, anche se meno di quanto correntemente si pensi. I principali mutamenti sono di tre ordini: riguardano gli attori, e quindi le vittime; le tecnologie belliche; la relazione con la politica.
Fino alla Prima guerra mondiale (inclusa), i conflitti moderni erano condotti essenzialmente da e fra soldati, in spazi limitati. Militare era per conseguenza la maggior parte dei caduti. Già nella Seconda guerra mondiale il numero dei morti civili eccede quello dei militari. Non solo perché i combattimenti escono dalle trincee e dai campi di battaglia per dilatarsi spesso nel cuore dei centri abitati, ma anche per le nuove tecnologie, a cominciare da esplosivi sempre più potenti e impiegabili a vasto raggio. La guerra area, in particolare i bombardamenti terroristici contro la popolazione civile — che i britannici identificano con Coventry (e Londra), i tedeschi con Dresda, i giapponesi con le bombe convenzionali su Tokyo e le atomiche su Hiroshima e Nagasaki — segna una svolta sia nelle dottrine militari (ricordiamo il nostro Giulio Douhet, che nel 1921 pubblica il suo Dominio dell’aria) che nella percezione delle opinioni pubbliche. Al punto che “solo” tremila morti civili — non le centinaia di migliaia dei bombardamenti a tappeto della Seconda guerra mondiale — in un attacco aereo non convenzionale contro le Torri Gemelle di New York, l’11 settembre 2001, marcano un tornante storico.
Una nuova frontiera tecnologica è offerta dalla guerra cibernetica (cyberwarfare), che viene incontro a una necessità assai sentita nelle società occidentali o comunque benestanti: ridurre la visibilità del conflitto e limitare al massimo le perdite. Almeno le proprie, specie se civili. Ma proprio tali caratteristiche ci rendono più vulnerabili al terrorismo, agli attacchi “asimmetrici”, in cui il duellante più debole sfrutta a proprio vantaggio la strapotenza del più forte.
La scarsa disponibilità occidentale a morire per la patria e a impegnarsi in guerre massicce e prolungate, accentuata dall’«inutile strage» del 1914-18, ha indotto alcuni studiosi a dichiarare la morte della guerra, almeno nel senso tradizionale del termine. I conflitti nei quali sono impegnate le Forze armate dei paesi Nato (esemplare il caso afgano) non vengono ufficialmente definiti tali, ma declassati a “operazioni di pace” per non turbare le troppo sensibili opinioni pubbliche e forse anche le coscienze di alcuni decisori che hanno bisogno di credere alla propria propaganda.
Se fino a metà del secolo scorso le guerre potevano essere rappresentate come esplosioni di violenza delimitate nello spazio e nel tempo, i conflitti attuali sarebbero leggibili come un continuum: una costante tensione latente che ha i suoi picchi e le sue pause, non più un inizio e una fine (si pensi ai Balcani, da Sarajevo a Sarajevo, e oltre). Così a morire non è tanto la guerra quanto la pace.
Di sicuro è in crisi, se non defunto, il paradigma classico che vuole la guerra continuazione della politica con altri mezzi. L’impiego della forza è spesso astrategico, nel senso che non persegue un fine politico determinato. O quanto meno, gli obiettivi sono alquanto fungibili e mutevoli, soprattutto in conseguenza degli umori delle opinioni pubbliche domestiche e internazionali.
Lasciamo stare i Balcani o l’Afghanistan: qualcuno è in grado di spiegare in una frase l’obiettivo della guerra americana al terrorismo, dopo l’11 settembre? Certamente non seppe farlo George W. Bush — si contano una trentina di sue spiegazioni, spesso contraddittorie — mentre l’attuale presidente Barack Obama ha preferito rinunciare a chiamarla per nome, per proseguirla in modo meno visibile (cibernetica, droni, operazioni coperte) ma non meno letale.
In ogni guerra, specie in quelle a noi contemporanee, riposa dunque una componente irrazionale, che spin doctor, accademici e strateghi militari — talvolta la stessa persona con tre cappelli — cercano di ridurre ad algoritmo. A questa costante non si può sfuggire. La guerra è anzitutto e sempre avventura, sanguinosa e paradossalmente fascinosa. Poiché lo spirito d’avventura appare troppo umano per essere debellato, la profezia di Wells dovrà sopportare, per il tempo prevedibile, le dure repliche della Storia.
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