Dai quadri di Warhol ai paesaggi di Turner
La più grande galleria d’arte del mondo fruibile da casa In digitale 57 mila opere
“La Repubblica“, 22 gennaio 2014
PARIGI Uno sguardo ai quadri di Andy Warhol al Moma, un giro davanti ai paesaggi di Turner dentro alla Tate Britain, la contemplazione dei più famosi impressionisti al Museo d’Orsay. Ma anche, con un salto nello spazio, la visita nella galleria d’arte moderna di Istanbul, oppure in quelle di Hong Kong e Sydney. Dalla poltrona di casa, senza muoversi. È il più grande museo del mondo. Anzi è il museo dei musei: oltre 57mila opere disseminate in 50 Paesi. Neppure Walter Benjamin, che aveva incominciato la sua riflessione sull’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica, poteva immaginare che saremmo arrivati a tanto.
La nuova frontiera è in una palazzina elegante di rue de Londres, nono arrondissement. Dentro all’Istituto culturale di Google lavorano una trentina di ingegneri che hanno messo a punto software e tecniche interattive per catalogare ma anche vedere e avvicinarsi (virtualmente) ad alcuni dei più grandi capolavori dell’umanità.
Nella sede del gigante americano non ci sono opere, solo schermi, computer, scanner. Un luogo asettico e molto professionale che ha poco a che vedere con l’emozione estetica. Direttori e conservatori di musei vengono qui dal mondo intero per discutere della digitalizzazione delle opere e dell’esperienza immateriale che se ne può avere davanti a un computer. «Era necessario avere un luogo fisico. Comunicare di persona è molto meglio che per email» spiega con una battuta Laurent Gaveau, già responsabile dei contenuti digitali del Castello di Versailles e ora direttore del Lab, il nuovo spazio di 340 metri quadrati inaugurato a dicembre ma disertato polemicamente dal ministro della Cultura, Aurélie Filipetti.
È uno dei tanti segnali di come il progetto artistico del gruppo americano sia tutt’altro che consensuale. Alcuni musei francesi, come il Louvre e il Pompidou, sono ancora scettici sull’iniziativa e non hanno autorizzato Google a fotografare la loro preziosa collezione. La Francia, tra l’altro, è il paese che ha più osteggiato il colosso di Mountain View. Ha aperto un contenzioso fiscale, ha inflitto una multa di 150mila euro per violazione della privacy, e ha costretto il gruppo a versare agli editori una somma,seppur ridotta, per l’uso dei contenuti giornalistici.
Eppure è qui, nella “tana del lupo”, che Google ha deciso di aprire uno dei suoi progetti simbolo. «La Francia è la Silicon Valley della cultura» ha commentato Nick Leeder, direttore di Google France. Il gruppo americano insiste sul fatto che si tratta di una piattaforma no profit. «Forniamo gratuitamente i tool ai musei che ce lo chiedono. Nessuna ingerenza, ogni partner usa la piattaforma in perfetta autonomia» racconta Gaveau. «Quando ho iniziato questo lavoro, due anni fa, molti temevano che la visita virtuale avrebbe sostituito quella fisica. Ora sappiamo che non è così. Anzi più si possono trovare opere online e più si provoca il desiderio di vederle dal vivo. Sono due esperienze complementari».
Nel Lab di Google l’atmosfera è tipicamente californiana. Ragazzi trentenni che sorseggiano bibite all’open bar. All’ingresso si ritrova la solita ossessione per i segreti industriali del gruppo. Prima di entrare bisogna firmare la dichiarazione: «Tutto ciò che vedrete o sentirete durante la vostra visita deve restare confidenziale». Non sono autorizzate fotografie né riprese all’interno della palazzina di rue de Londres. Al pianterreno c’è un “Big Wall”. Sullo schermo interattivo di 65 metri quadrati — «il più grande del mondo» — vengono proiettati quadri che, nella realtà, sono dieci volte più piccoli. L’occhio della Venere di Botticelli, che misura pochi millimetri, si allunga su un’intera parete. È così che si riescono a vedere dettagli invisibili normalmente, come il volto di un ragazzo disegnato dentro alle minuscole lacrime della donna ritratta in “No Woman, No Cry” dell’artista Chris Ofili, esposto alla Tate Modern di Londra. Sul Big Wall appare “La Mietitura”, l’olio su tavola dipinto nel 1565 da Pieter Bruegel il Vecchio. In scala ingrandita si scopre che, in fondo al quadro, c’è un gioco medievale: il tiro a bastone contro l’oca. Una scena che nella realtà è grande come un’unghia. Con un clic, ecco lo zoom su un altro dettaglio: dei monaci che fanno il bagno. Nel dipinto originale, così come lo vedono milioni di persone al Metropolitan Museum of Art di New York, sarebbe quasi impossibile accorgersene.
«È un modo inedito di immergersi nell’opera» spiegano i responsabili del Lab. Gran parte delle opere nei musei non si possono toccare, maneggiare. Sullo schermo viene proiettata una maschera vecchia di 9mila anni esposta al museo di Gerusalemme. Con un altro clic si può girare a 360 gradi, scrutare sotto diverse prospettive. Google propone adesso una digitalizzazione in gigapixel, la migliore definizione possibile. Ci sono già 73 opere disponibili con questa qualità. È una sorta di realtà aumentata, con informazioni e dettagli che non sono percettibili nel consueto approccio alle opere d’arte. Molti musei utilizzano anche il robottino del famoso Street View, ribattezzato Museum View, per registrare una visita virtuale attraverso la loro collezione. Ci si può muovere in libertà tra stanze e piani, senza il frastuono e la ressa dei turisti. Un’»esperienza», dicono a Google, che raramente si può sperimentare nei grandi musei del mondo.
La sede parigina di Google è chiusa al pubblico ma ospita periodicamente visite di studenti delle scuole d’arte. La visione ravvicinata delle opere permette di esaminare meglio la tecnica utilizzata da grandi artisti. Al primo piano c’è un grande atelier con stampante 3D, scanner, laser cutter, strumenti per forgiare, persino il prototipo di un robot capace di fare dei pancake. Cosa c’entra con l’arte? Lo dovranno scoprire i primi due artisti invitati a lavorare in questo “Bateau Lavoir” del ventunesimo secolo. Le giovani promesse della creazione interattiva saranno in residenza per sei mesi, selezionate da Hans Ulrich Obrist e Simon Castets, promotori del progetto “89plus” che riunisce una nuova generazione di creatori nati nel 1989, anno della caduta del Muro di Berlino e dell’avvio del World Wide Web. Nel Lab di Google saranno anche organizzati seminari e conferenze. Il prossimo appuntamento, in primavera, è dedicato alle donne nell’arte e nell’ingegneria informatica, in nome di una parità che ancora non c’è.
La piattaforma interattiva è stata lanciata due anni fa ed è già stata visitata da milioni di persone: 7,4 milioni di abbonati al Google Art Project, che comprende anche l’iniziativa World Words Project per visitare monumenti e luoghi archeologici, da Pompei alla Tour Eiffel. Alcuni partner, come il museo d’Orsay, hanno deciso di mettere in linea i loro archivi, normalmente non accessibili al pubblico. «Non siamo un museo, né una galleria» puntualizza il direttore del Lab di Google. «Abbiamo solo messo a disposizione di chi lo desidera un luogo d’incontro e formazione ». Il dibattito con gli esperti del settore è spesso acceso, polemico. «I conservatori di musei sono molto esigenti » riconosce Gaveau. Il lavoro degli ingegneri è più volte affinato, migliorato. Il software deve procedere per sottrazione. «Il nostro obiettivo — dice il manager Google — è cancellare il più possibile la tecnologia per valorizzare al massimo le opere». Un tempo esistevano i musei immaginari. Ora c’è la possibilità, grazie alla piattaforma, di creare una “galleria personale”, selezionando ai quattro angoli del mondo le opere preferite, riunendole tutte in un unico luogo virtuale. Che sia davvero questo il futuro, o la morte, dell’arte per come l’abbiamo conosciuta,nessuno ancora può dirlo.
Anche la Venaria Reale e l’Archeologico di Ferrara sono già in Rete
Dagli Uffizi a Palazzo Grassi “Così la cultura è globale”
FIRENZE C’è anche chi, della Rete, non ha avuto paura. E all’appello di Google Art ha risposto subito, e senza tentennamenti. Sul progetto di raccolta di immagini ad alta risoluzione delle opere e di tour virtuale dei più importanti musei mondiali hanno scommesso fin dall’inizio, e senza tentennamenti, gli Uffizi, la più visitata galleria italiana (oltre un milione e 875 mila le presenze nel 2013), entrata a far parte fin da febbraio 2011 della lista dei diciassette pionieri dell’iniziativa insieme alla Tate di Londra, al Metropolitan di New York e al Van Gogh Museum di Amsterdam. Un ruolo di apripista, quello dell’istituzione fiorentina, la quale, in virtù di un accordo tra il Mibac e l’azienda di Mountain View, ha aperto i propri corridoi e offerto ai tecnici di Google la propria consulenza sulla scelta delle collezioni da fotografare, le indicazioni sull’angolatura degli scatti e tutte le informazioni tecniche e storico-artistiche necessarie a corredo dell’operazione. Un esempio seguito, l’anno successivo, dai Musei Capitolini di Roma, entrati a far parte del progetto nell’aprile del 2012 e, successivamente, da Palazzo Grassi a Venezia, dalla Venaria Reale di Torino e dal Museo archeologico di Ferrara, tutti oggi visitabili totalmente o parzialmente, con un clic, dalla propria scrivania, grazie alla tecnologia Street View, la stessa usata da Google Maps e Google Earth.
Il direttore degli Uffizi, Antonio Natali, racconta di non aver avuto alcun dubbio: «Voglio che la Galleria sia al passo con i tempi», afferma, per poi spiegare: «Indipendentemente dal mio personale rapporto con la tecnologia, la mia concezione di museo è quella di un luogo il più aperto, democratico possibile. Questo non significa criticare le scelte e le perplessità di chi svolge il mio lavoro altrove, anche perché credo che, sull’opportunità finanziaria di far parte di un progetto come questo, debba essere il ministero competente a decidere. Per quanto mi riguarda — aggiunge però — sono convinto che un’iniziativa del genere abbia un valore educativo, oltre che di promozione. Sono sicuro che chiunque si trovi di fronte una sala come quella della Niobe o la Tribuna, da poco restaurate, non possa non aver voglia di venire a vederle dal vivo. E se questo, oltre che in un input culturale, si traduce in un vantaggio economico per lo Stato italiano, non posso certo disprezzarlo».
Della visita virtuale al museo fiorentino fanno parte, al momento, i due lunghi, iconici corridoi al secondo piano, e le sale attigue. Mancano, perché inaugurati dopo il 2011, i nuovi ambienti al Piano nobile, comprese le Sale cremisi dedicate al Manierismo fiorentino o quelle gialle del Barocco, ma in compenso fanno bella mostra di sé, per esempio, la Sala di Botticelli, quella di Leonardo, quella di Giotto e quella di Filippo Lippi, sede di alcune delle principali attrazioni della Galleria, a cominciare dalla celeberrima Primavera. Ai Capitolini, il tour virtuale non risparmia capolavori come l’Annunciazione di Garofalo, la cui fotografia, tra l’altro, è disponibile in qualità “giga pixel”, un’altissima risoluzione che permette ai fruitori di apprezzarne ogni minimo dettaglio, più di quanto sia possibile fare ad occhio nudo. Tra gli altri musei italiani, hanno aderito in parte al Google Art Project, fornendo non la possibilità di effettuare una vera e propria visita, ma scatti di tutte o di alcune delle opere più importanti delle proprie collezioni, anche Ca’ Pesaro, il museo Correr e il museo del Vetro di Murano a Venezia, la Fondazione Musei Senesi, il museo di Strada Nuova a Genova, il Diocesano e il Poldi Pezzoli di Milano e, sempre a Firenze, il museo di Palazzo Vecchio. Tra i grandi assenti, spiccano — almeno per il momento — Brera, la Reggia di Caserta, l’Archeologico di Reggio Calabria, Capodimonte.
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