Il viaggio di Simone Weil alle fonti della violenza
Pietro Citati
“Corriere della Sera“, 11 gennaio 2014
La rivelazione greca di Simone Weil (pubblicata dalla Adelphi, con eccellente traduzione e commento di Maria Concetta Sala e Giancarlo Gaeta) è un libro senza paragoni.
La parola Grecia ha un’estensione quale non aveva mai avuto nella storia, assai più che nell’Umanesimo e nel Rinascimento. Comprende l’Iliade, i testi orfici, pitagorici, Eschilo, Sofocle, Platone, i platonici; e Cristo e i Vangeli e la tradizione cristiana dove è più pura. Una frase di Platone risuona sulle labbra di Cristo; un detto di Cristo spiega una pagina o un dialogo di Platone; l’Iliade avvolge tutte le cose come una grande coltre materna; un tessuto fittissimo di risonanze e di echi colma secoli di vita, che a Simone Weil appaiono miracolosi. Questa vita non è scomparsa: la Grecia non è una civiltà meravigliosa e irrimediabilmente finita, come appare anche ai più appassionati studiosi. La Grecia è viva, attuale: è il nostro irradiante presente; se immaginiamo una tragedia che parli al nostro cuore, dobbiamo pensare all’Antigone o all’Edipo re di Sofocle; se sogniamo un poema che comprenda la vita e la morte, il destino di chi vince e di chi è sconfitto, solo l’Iliade soddisfa i nostri desideri.
Il primo e centrale di questi scritti, composti tra il 1936 e il 1943, è l’Iliade, poema della forza .
Il 4 dicembre 1934 Simone Weil era entrata in fabbrica, come ouvrière sur presses . Non vi era entrata per ragioni umanitarie o politiche: ma per provare sulla sua carne, con quel coraggio furibondo che non l’abbandonò mai, cosa fosse la mossa ferrea della necessità. Là dominava la macchina, senza rivali: come nei versi di Baudelaire, regnava la sventura moderna, dei grandi occhi muti; lei voleva fissare lo sguardo in quella orribile apparizione. Conobbe la costrizione assoluta, la sinistra ripetizione, l’umiliazione profonda. Qualcuno le diceva all’orecchio, di minuto in minuto, senza che lei potesse rispondere: «Tu non sei nulla qui. Tu non conti. Tu sei qui per piegarti, subire tutto e tacere». Imparò cosa significa ciò che aveva letto nei libri: diventare una cosa, un pezzo di legno o di ferro.
Quelle esperienze di fabbrica diventarono, grandiosamente trasformate, l’esperienza di lettura dell’Iliade , dove scoprì la prima apparizione scritta della forza nel mondo. Nell’Iliade , la forza ha due aspetti, secondo che la si veda con gli occhi di chi la subisce o di chi la impone.
La forza fa di chiunque le sia sottomesso una cosa: cadavere e oggetto. Se egli è vivo, ha l’anima; e tuttavia è una cosa. Ci sono esseri sventurati che, senza morire, sono diventati cose per tutta la vita. Nelle loro giornate, non c’è alcun margine, alcun vuoto, alcun campo libero, per un soffio che venga da loro stessi. Non sono uomini che vivono più duramente di altri: si tratta di una diversa specie umana, un compromesso tra l’uomo e il cadavere.
Chi ferisce, violenta, uccide, comanda, impone non è più libero dalla forza di chi ne è distrutto. Egli non la possiede: vi fa troppo affidamento e ne è inebriato, travolto dalla propria hybris . Va al di là di ciò di cui dispone. Va inevitabilmente al di là, perché ignora cosa è limitazione e misura: viene abbandonato senza rimedio al caso, e le vicende non gli obbediscono più.
La storia greca aveva avuto inizio con un crimine atroce: Troia era stata distrutta e arsa; nella notte i guerrieri troiani erano stati massacrati, i bambini sfracellati contro le rocce; le donne prese prigioniere e portate in esilio. Allora, era nato un immenso rimorso, che aveva pesato su tutta la civiltà greca e, come suggerisce la Weil, su tutta la storia che gli uomini fabbricarono dopo di allora.
Le lacrime di Andromaca dopo la morte di Ettore sono le lacrime che piangiamo su noi stessi come attori e vittime della storia.
La creazione del mondo non è stata — secondo la Weil — un atto di pienezza, di espansione e dilatazione di Dio, come racconta la Genesi. È stata una follia. Per darci spazio, Dio ha rinunciato a se stesso; si è limitato; si è nascosto negli abissi più remoti; si è ritirato dall’universo, come diceva Itzhak Luria. Nel luogo vuoto, che prima della creazione occupava, egli ha lasciato lo schermo tremendo della necessità: le leggi meccaniche dell’universo, il male, la miseria, l’angoscia, il lavoro, la guerra e la forza dell’Iliade, la morte violenta, la malattia, l’oggettività mostruosa della fabbrica moderna. Come uno schiavo, Dio si è incatenato con le catene della necessità, sulla quale non interviene.
Ora, nel mondo, non c’è alcuna traccia di misericordia divina; e questa assenza è il segno di Dio. A causa di questa rinuncia, egli non è più l’Uno, come i filosofi troppo ottimisti avevano creduto. È lacerato tra i suoi due volti opposti e contraddittori, che tuttavia costituiscono il suo unico volto: diviso tra bene e necessità, come noi siamo. Nessuno, mai, nemmeno uno gnostico, aveva portato la lacerazione e la follia, che sono cose proprie dell’uomo, così addentro il volto segreto di Dio.
Il mondo è la conseguenza di questo paradosso divino. Da un lato Dio perduto, lontano, assente dalla sua creazione, dove possiamo rintracciare soltanto qualche lievissimo barlume di lui. Ma, d’altro lato, egli è onnipresente nella creazione, come nei Salmi. Tutte le cose sono una metafora e un riflesso multicolore della sua presenza. Egli è dovunque: nella bellezza, nell’ordine e nell’armonia del mondo, schiave della necessità, che la Weil celebra con gli accenti di una stoica o di una cristiana del quarto secolo. Egli è presente in ogni cosa che avviene nell’universo: nei fatti mostruosi che sono accaduti, nei fatti orribili che stanno per compiersi, i quali per l’uomo sono tutti carezze delicate e discrete della mano di Dio.
L’incarnazione e la passione rappresentano il culmine della follia e dello strazio di Dio. Appena parla di Cristo, ogni traccia gnostica e manichea scompare dalla mente della Weil: Cristo è colui che si è incarnato e ha patito con un reale corpo umano. Ma in lei non c’è nemmeno una traccia del Cristo salvatore e trionfatore della tradizione cristiana: Cristo non salva nessuno. Come Osiride, è il Dio fatto a pezzi, simbolo «dello spirito disperso attraverso lo spazio e la materia». Sulla croce, egli viene abbandonato da Dio, che verso di lui diventa gelido come la necessità; non c’è parola nei Vangeli che abbia tanto colpito la Weil quanto il grido di disperazione del Dio abbandonato. Come diceva Eschilo, «mediante la sofferenza e la conoscenza». «La croce del Cristo — ribadisce la Weil — è l’unica forza della conoscenza». Il solo pensiero umano degno di questo nome è lacerato, contradditorio, aguzzo, aforistico, come i due pezzi di legno levati inutilmente contro il cielo.
La tragedia della croce si ripete nella sventura — l’esperienza essenziale che ogni uomo fa di se stesso. Non c’è nessuna sensazione o sentimento che la Weil abbia espresso con tanta lucidità e intensità, con tanta appassionata partecipazione e orrore e riconoscenza come se per tutta la vita, malgrado le dolcezze discese dal cielo e gli sguardi innamorati alla natura, non fosse stata che «un poco di carne nuda, inerte e sanguinante, abbandonata senza nome sull’orlo di un fossato».
La sventura è una di quelle presse che la Weil aveva conosciuto in fabbrica: un meccanismo freddo, metallico e implacabile che domina il corpo, ostacola l’immaginazione, incatena il pensiero, ghiaccia tutti coloro che tocca. Come con un ferro rosso, imprime nello sventurato il disprezzo, il disgusto, la repulsione di sé, una sensazione di colpa e di lordura più grave di quella che suscita il delitto. Lo rende succube e complice, inietta un veleno di inerzia, si fa amare e desiderare, uccide le parole che potrebbero esprimerla; martella l’anima, la degrada, la riduce a una cosa, l’annienta.
In quei momenti di desolazione, Dio abbandona chi soffre, come aveva abbandonato Giobbe e Cristo: «Egli è più assente di un morto, più assente della luce in un carcere completamente tenebroso».
Ma, subito dopo aver descritto con parole terrificanti la sventura, grazie a uno di quei capovolgimenti totali che costituiscono la chiave del suo pensiero — la Weil intona l’elogio della sventura. Con una specie di empietà nella voce, afferma che a causa della sofferenza «l’uomo è superiore agli dei». «Dio ha dovuto incarnarsi e soffrire per non essere inferiore all’uomo». «Se in questo mondo non ci fosse sventura, potremmo crederci in paradiso, orribile possibilità». Se sappiamo scendere in fondo alla sventura, come Omero e Sofocle, senza cercare consolazioni o illusioni, senza parole vane e bugiarde — lì, proprio in fondo all’abisso, in quelle profondità dove stanno le cose supreme, ritroveremo la sofferenza redentrice, la verità, la bellezza, la misericordia e l’amore di Dio.
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