Un rapporto che vive soltanto nella diversità
Umberto Curi
“Corriere della Sera - La Lettura“, 19 gennaio 2014
Basta un click. In un social network come Facebook, per «aggiungere» qualcuno alla propria lista di amici (o, all’opposto, per «rimuoverlo») è sufficiente posizionare il mouse su un’apposita casella e dare l’impulso. Tutto qui. Senza bisogno di convenevoli o complicazioni. Senza essere costretti a guadagnarsi l’affetto o la stima dell’altro, e senza neppure fornire spiegazioni ove si preferisca rifiutare o cancellare l’amicizia. Basta un click. Ma se si esce dalla rete, e si interrogano alcuni autori della tradizione filosofica occidentale, è facile scoprire che il tema è molto meno semplice, oltre che certamente meno banale.
Nell’Etica Nicomachea (libro VIII, capitolo 3), Aristotele sottolinea con molto rigore le differenze riscontrabili tra varie forme di amicizia. Non è «vera» amicizia né quella che corrisponde all’utile di uno, o di entrambi i contraenti, né quella che è fondata sul piacere. Autentica è solo quella che, svincolata da ogni altra motivazione in qualche modo estrinseca, trovi la propria ragion d’essere in se stessa, e si sviluppi inoltre sul comune presupposto della virtù dei contraenti.
Radicalmente diversa l’impostazione conferita al problema da Nietzsche, proiettato a superare ogni approccio genericamente «sentimentale», e ogni visione artificialmente edulcorata, per approdare a quella nozione di «amicizia stellare», che si imporrà quale punto di riferimento per il dibattito teorico del Novecento. L’amicizia non è definita per «prossimità», né è riconducibile ai motivi che ricorrono nella precedente tradizione speculativa. Il fondamento dell’amicizia va individuato nella differenza: «Esiste verosimilmente un’immensa invisibile curva e orbita siderale, in cui le nostre diverse vie e mete potrebbero essere intese quali esigui tratti di strada… E così vogliamo credere alla nostra amicizia stellare, anche se dovessimo essere terrestri nemici l’un l’altro». Fra gli aspetti più innovativi dell’impostazione nietzscheana, vi è il riconoscimento di una connessione, che potrà apparire sorprendente o paradossale, e che invece è decisiva. Sia pure soltanto attraverso un accenno, l’autore dello Zarathustra infatti istituisce una stretta connessione fra amicizia (stellare) e inimicizia (terrena), fra amicizia e ostilità. Con ciò alludendo ad una questione di grande rilievo, sulla quale si ritornerà più ampiamente di qui a poco.
Memore del monito nietzscheano — «Amici, non vi sono amici» — Jacques Derrida prende le mosse da una riflessione sui modelli di amicizia elaborati nel mondo greco e nella modernità, e dunque dalla nozione classica di philia e dall’ideale della fratellanza universale, per sottolineare che, pur in maniera diversa, entrambi intendono il legame dell’amicizia come un vincolo, come una costrizione. Tutto ciò è confermato, secondo il pensatore francese, dal fatto che l’amicizia è concepita non come unione fra due incommensurabili, ma come relazione fra ciò che si tende a rendere simile, sicché l’amicizia viene ad essere principalmente fondata sulla cancellazione delle differenze, anziché sulla loro valorizzazione. Emerge, per questa via, l’affiatamento fra il modo di concepire l’amicizia e un contesto più generale, dominato dalla logica dello scambio fra equivalenti, dalla simmetria fra debito e credito, al punto che la stessa amicizia è considerata un rapporto suscettibile di misurazione, riconducibile dunque ad una formulazione quantitativa. Sovvertendo ciò che accomuna il classico e il moderno, Derrida propone invece di intendere l’amicizia come ciò che non solo non cancella l’estraneità, ma che salda soggetti che sono in qualche modo estranei: «La dissimmetria infinita è la condizione di un’amicizia senza condizione, che a sua volta è l’unica forma di relazione perché senza alcuna comunanza. Tutto il resto è scambio e debito» (Politiche dell’amicizia ).
Insomma, bisogna avere la forza di costruire l’amicizia sulla dissomiglianza, sull’asimmetria, sulle differenze, valorizzando al massimo (e non deprimendo) le differenze e dunque esaltando la diversità: «Non si dispone del bene dell’amicizia, ma ci si attrezza ad offrirlo». Non è vero, allora, che l’amicizia consista nel fare «uno» di «due» soggetti. Al contrario, non è vera amicizia, se non quella che tiene aperta, e anzi enfatizza la «duità»: il rispetto delle differenze, la valorizzazione della dissimmetria. La lezione nietzscheana ricompare qui da un lato come reciso superamento dell’accezione classica, aristotelico-ciceroniana, di amicizia, e dall’altro come riabilitazione del nesso che intercorre fra amicizia e ostilità.
Sia pure indirettamente, l’approccio derridiano lascia intravedere un aspetto dell’amicizia abitualmente ignorato, su cui indugia invece Carl Schmitt. Per dirla in estrema sintesi: se sono «amico» di qualcuno, per ciò stesso non posso che essere nemico di un altro. E viceversa. Non si può essere «amici», se non nel concreto di una relazione che ha, per così dire, due facce: da un lato quella dell’unione, e dall’altro quella della disconnessione. La fratellanza universale è dunque un’utopia, o un abbaglio, perché tende a rimuovere il principio di individuazione dell’amicizia — l’essere con qualcuno, perché si è contro qualche altro. Con l’aggiunta che questa relazione è comunque sempre reversibile, nel senso che il nemico può convertirsi in amico e viceversa.
Nella prospettiva che si è fin qui delineata, assume allora un significato molto più definito la concezione platonica dell’amicizia, quale viene formulata soprattutto nell’epilogo del dialogo intitolato Liside, là dove il filosofo sembra arrendersi («non so più cosa dire») di fronte alla difficoltà di indicare una definizione univoca dell’amicizia. Non si tratta semplicemente di una dichiarazione di afasia. Da un lato, infatti, resta inevasa la domanda sul ti esti, sul «che cos’è», riferito all’amicizia. Ma dall’altro lato ciò non può cancellare l’esistenza effettiva di una relazione di amicizia.
In termini forse ancor più radicali, di quanto non sosterranno Nietzsche e Derrida, anche Platone dunque respinge ogni tentativo di far corrispondere l’amicizia ad una «cosa» di cui si possa parlare. Ma nel contempo, questo limite intrinseco al logos non occulta una situazione di fatto, nella quale e per la quale si può riconoscere in atto la presenza dell’amicizia. E forse è questo l’implicito contesto di pensiero per il quale si è soliti affermare che l’amicizia autentica non si dichiara, ma si dimostra. Perché non vi sono parole che ci permettano di definirla. Mentre noi comunque siamo amici — ma per ciò stesso anche nemici — in rapporto ad altri.
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