domenica 1 dicembre 2013

James Joyce. L’inedito Finn’s Hotel


Tutta la gioia di giocare con le parole

Nadia Fusini

“La Repubblica”, 1 dicembre 2013

Joyce non scherzava quando con fare sprezzante intimò: «Cosa chiedo ai miei lettori? Che passino la vita a leggermi». Noi suoi devoti lettori l’abbiamo fatto, e ora rejoyce, rejoyce,alleluja, alleluja, ci arriva più Joyce, ancora Joyce... In più, il nostro preferito ci viene servito in un libro illustrato da Casey Sorrow, artista americano, con introduzione di Danis Rose, distinto studioso del vate dublinese, postfazione di Seamus Deane, poeta, scrittore e accademico d’Irlanda, e nella traduzione di un joyciano doc come Ottavio Fatica — un libro di cui non potremmo arrivare all’acquisto, fossimo in Inghilterra, dove il costo è stellare: 2.500 euro per l’edizione di lusso, 350 per quella numerata... Qui invece, con 13 euro il libro è nostro, grazie alla casa editrice Gallucci.
Con assoluta fiducia ci abbandoniamo alla garanzia di fedeltà e fantasia che ci dà il nome di Ottavio Fatica, il suo modo di giocare con l’italiano, proprio come Joyce fa con l’inglese. Non c’è altro verso di leggere e tradurre Joyce, se non assecondando il genio della lingua. Perché se Joyce ha del genio, esso è di natura linguistica. Per ricchezza e originalità è incomparabile la destrezza con cui tratta le parole e traffica con la loro intrinseca doppiezza e ambiguità. Lacan, che lo comprende come pochi, fa coincidere il suo genio e il suo disturbo nello stesso termine, cioè sintomo che scrive Sinthome, e calca la voce perché vi si senta un’eco di Saint Thomas (d’Aquin) — il santo di Joyce; il quale apprezza come pochi altri l’opera tomista sul versante filosofico. E inventa, o crea un personaggio santhòmo, e cioè Leopold Bloom, che della santità svela l’aspetto ordinario, e ci fa scoprire come siano vicini, in fondo, la terra e il paradiso, e come si sfiorino il sublime e l’osceno. Della filosofia tomista Joyce fa suo l’assioma degli universali, secondo cui Unum, verum et bonum convertuntur cum ente, che significa per lui che la bellezza è qui, nello splendore di una lettera (letter) che è anche litter (scarto, rifiuto). E si fa l’idea che la civiltà trionfi nella creazione della fogna.
Le cose potrebbero essere andate così. Nel 1923, Joyce, appena finito il suo enciclopedico
Ulisse,non è ancora pronto per Finnegans, si mette a scrivere a mo’ di divertissement alcuni racconti, che isolano momenti epifanici della storia e della mitologia irlandese. Sono prose-bonsai che ordina intorno al titolo Finn’s Hotel, che è poi lì dove lavora la sua Nora, quando l’incontra. Questi epiclets,o epicleti, ovvero rivelazioni nello stile tranche de vie, o se volete, episodi in stile epico, piccole epiche, epichette, li scrive in brutta, li trascrive in bella, li batte a macchina e poi li mette via tutti, tranne uno, in cui appare l’inizio di qualcosa che in effetti sarà la «veglia funebre», o il «risveglio» di Finnegan. In altre parole, in Finn’s Hotel Joyce cova l’uovo da cui schiuderà l’opera futura. Così fosse, è chiara l’importanza di queste storie tutte.
Non tutti gli accademici concordano, però. Alcuni studiosi si domandano se questi racconti siano o meno intesi come una raccolta e si angustiano di fronte alla questione capitale se il Finnegans sia un’espansione di queste specie di Ur-stories, o un parto del tutto autonomo. Rimane il fatto che nel 1938, mentre sta lottando per il finale del Finnegans, ritorna a questi pezzi e a mo’ di conte Ugolino si nutre dei suoi pargoli. E già questo per noi lettori superficiali è emozionante: assistere al pasto e all’impasto dello scrittore-cannibale, al suo modo di lavorare. Questi dieci «pezzi facili» — più facili del Finnegans e dell’Ulisse— come che sia rimangono una lettura godibilissima, che testimonia come la vera festa dell’incontro con Joyce non sia in quello che ci racconta, ma sempre e comunque nel banchetto linguistico che imbandisce. È nel modo in cui manipola la lingua la jouissance specialissima di cui si gioisce con Joyce.
La grande intuizione joyciana è questa: l’uomo, non più eroico, è un buffone. Come si evince chiaramente dalla pìstola, ovvero epistola — leggetela qui accanto — che Anna Livia Plurabelle, vedova Earwicker, scrive a una qualche Magistà per scagionare il marito, il quale sembra che nel parco abbia compiuto atti osceni. Sono tutte bugie, infamie, protesta ALP: suo marito è un uomo d’oro, il nome suo è onorato, mente chi lo accusa, quel codardo di McGrath... Eva difende il suo Adamo: lo sposo suo devoto è semplicemente umano, troppo umano, e chi non ha colpe, ovvero desideri sessuali osceni, scagli la prima pietra.

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