sabato 7 dicembre 2013

La storia secondo Camilleri. Quando i romanzi sono più veri dei fatti


Giovanni De Luna, 

“La Repubblica”, 6 dicembre 2013

Perché i racconti dello scrittore ambientati nel passato sono una sfida ai saggi accademici basati su documenti e testimonianze autentici.
Una famiglia contadina che diventa una banda, cinque fratelli che diventano fuorilegge. La storia dei Sacco, raccontata nell'ultimo romanzo di Andrea Camilleri (La banda Sacco, Sellerio, pagg. 184) ha le cadenze di un western. I fratelli Sacco some Frank e Jesse James, le campagne di Raffadali, provincia di Agrigento, tra la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento, come il tormentato Missouri dopo il sanguinoso epilogo della guerra civile americana; gli ammazzamenti e le sparatorie come rivolta armata contro un potere istituzionale (il Nord unionista da un lato, lo Stato italiano dall'altra) vissuto come pura sopraffazione e comunque nemico.
Non sono paragoni azzardati. Con una variante, però, tutta italiana. I Sacco non combattono soltanto contro l'apparato repressivo dello Stato. C'è la mafia di mezzo ed è un nemico molto più insidioso dei carabinieri. Tutto comincia, («la vita dei Sacco cangia nei primi misi del 1920»), infatti, con la richiesta del "pizzo" che arriva al padre, Luigi. La lettera viene bruciata nel camino. Luigi ha faticato troppo per avere quello che ha e non ha nessuna intenzione di dividerlo con gli estorsori. I suoi figli hanno alle spalle le due grandi esperienze formative delle classi subalterne italiane all'inizio del Novecento: l'emigrazione transoceanica e la guerra 1915-1918. In quel contesto hanno maturato idee socialiste, imparando a coltivare progetti per il futuro improntati all'onestà e al lavoro. 
La loro reazione alla minaccia mafiosa sottolinea proprio questa complessiva estraneità alla tradizionale "rassegnazione" del mondo rurale; denunciano il fatto ai carabinieri. E non ottengono nulla. Lo Stato assente spalanca un vuoto di potere fisiologicamente colmato dall'intimidazione mafiosa. Contro l'alleanza tra Stato e mafia i Sacco si ribellano impugnando le armi. Mai era successo niente di simile: una sfida di contadini alla mafia, attaccata sul terreno per lei strategico del monopolio della violenza. I nemici della mafia diventato fuorilegge per lo Stato italiano. Il racconto di Camilleri ne segue le gesta fino a un epilogo in puro stile western («Pari in tutto e per tutto una scena di pillicula western»): oltre duecento agenti di polizia circondano la casa in cui sono asserragliati i Sacco e li catturano dopo una furibonda sparatoria. All'arresto seguirono il processo (1928), la condanna (tre ergastoli) e lunghe vicissitudini carcerarie.
Quella dei Sacco è una storia vera. Per scriverla Camilleri si è documentato consultando soprattutto le carte dei processi e l'archivio familiare avuto da un discendente dei Sacco. Non è una novità; i romanzi di ispirazione storica accompagnano la sua Vigata in un arco di tempo che va dalla fine del Seicento almeno fino agli anni del fascismo e della seconda guerra mondiale trascinando il lettore in un serrato intreccio tra gli eventi locali e i grandi scenari delle vicende nazionali. Ma tutto questo non deve ingannare; Camilleri diffida della storia, non la ama, ne riconosce l'importanza ma preferisce tenerla a distanza. Troppo spesso gli storici di professione hanno dimenticato "la gente grama", la loro fatica di vivere, i loro saperi , la loro sensualità, i loro corpi. E così Camilleri li sfida. Non solo su piano della narrazione, dove non c'è partita, ma spingendosi fino ad attaccare i fondamenti della loro disciplina.
Se la grande storia parla soprattutto dei vincitori e dei potenti, non è colpa solo degli storici; è che le tracce del passato su cui lavorano, "i documenti", sono quelli lasciati da chi aveva già l'intenzione di condizionare i posteri, costruendo in anticipo i propri "monumenti": in buona fede sono vittime di un'impostura ordita dal passato per imporre la sua immagine al futuro. Camilleri si ribella a questa impostura, costruendone un'altra, più raffinata e irridente. L'intero abito professionale degli storici si è costruito sulla distinzione tra il vero e il falso, sull'esercizio preliminare della verifica dell'autenticità e dell'esattezza dei documenti. Camilleri smonta questa operazione rimanendole però vicino, attento a non allontanarsene troppo per dare più spessore al suo attacco, più sapore alla sua beffa. Così, all'inizio di un romanzo c'è spesso un documento vero (un volantino del 1919 come in Un filo di fumo, gli atti parlamentari dell'Inchiesta sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia1875-1876 come in La stagione della caccia, ecc...) che serve però a costruire il falso più pericoloso per lo storico, quello verosimile.
Con La banda Sacco la sfida si fa più sottile. Anche in questo caso si parte dalle "fonti", quelle giudiziarie, tra le più frequentate dagli storici di professione. Sulla base di questi documenti Camilleri organizza il suo racconto. Dividendo il libro in due parti. La prima, intitolata "I fatti come avvennero", è una vera provocazione. Nessuno storico oserebbe scrivere una cosa del genere. La storia non conosce fatti certificati; propone la conoscenza dei fatti, ma questa conoscenza non è un dogma, può cambiare se si scoprono nuove fonti e nuovi documenti. La seconda parte è intitolata "Considerazioni sui capitoli" e allude alla soggettività dell'autore, alle sue personali riflessioni e interpretazioni. I fatti separati dalle opinioni? Sì, con un piccolo trucco: la parte "oggettiva", quella dei "fatti" è scritta nella lingua di Montalbano e dei romanzi, quella "soggettiva" è scritta rigorosamente in italiano, la lingua dell'accademia. Così il capovolgimento è completo. Il romanzo, ci dice Camilleri, è proprio quello che "sembra" storia. E la storia, ancora una volta, ne esce beffata.

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