Stefano Bartezzaghi
“La Repubblica“, 29 dicembre 2013
Il primo trauma — e chi se lo scorda? — fu non dover andar a capo manualmente. L’amico esperto spiegava: «Per il computer, ogni paragrafo è una linea continua di caratteri; sei tu che hai bisogno di interfacciarti con uno spazio simile a una pagina di carta ». Avevo infatti bisogno, un bisogno estremo, di interfacciarmi. Solo che non sapevo cosa volesse dire. Sul computer appena acquistato, pulsava una lineetta intermittente e beffarda, come qualcuno che batta le dita sulla scrivania domandandoti: «Allora? Da dove pensi di cominciare?».
Il primo articolo inviato procurò un’imbarazzante telefonata dalla redazione: era prolisso, cresceva di una ventina di righe. Individuai il mio errore dopo una ricognizione perplessa fra gli arcani comandi della mia nuova “interfaccia”: la funzione di conteggio dei caratteri non considerava gli spazi fra una parola e l’altra. Pensavo di aver scritto sessanta righe, ne avevo mandate ottanta. Era il 1990 e incominciavo così a fare amicizia con Microsoft Word.
Il programma di scrittura più diffuso al mondo, centinaia di milioni di utenti, ha compiuto trent’anni nel 2013. Non si deve dire che è nato nell’ottobre del 1983 perché i software non nascono, i software vengono “rilasciati”. Inevitabile pensare alla fine di una detenzione, per l’effetto lisergico del lessico angloide. Rilasciato, dunque, nell’ottobre del 1983, Word già a novembre fu diffuso gratuitamente in una versione demo, tramite una rivista, con una mossa promozionale allora innovativa. A sviluppare il programma era stato un informatico americano nato in Ungheria, poco più che trentenne, Charles Simonyi. Aveva curato per la Xerox il software BravoX, ma l’azienda non aveva intenzione di commercializzarlo su vasta scala. Così Simonyi si rivolse a Bill Gates, che intuì le potenzialità del programma e del suo autore (lo arruolò subito, per dirigere lo sviluppo dei programmi applicativi di Microsoft). Erano, quelli, gli albori del personal computer, quando non tutti avevano intuito che la macchina sarebbe presto entrata non solo in ogni ufficio ma anche in ogni casa, se non in ogni stanza. A cosa doveva servire? Il mansionario sembra elaborato da Collodi: leggere, scrivere, far di conto. Ma anche giocare. Supremo utensile e balocco, compagno di lavoro e di svaghi, ragioniere, dattilografo, archivista e biscazziere. Non una mission, ma una composizione di funzioni, alcune previste, altre da inventare. Non a caso il primo nome del software di scrittura è stato “Multi-Tool Word”: milleusi, come i coltellini svizzeri in cui sono ingegnosamente ripiegati cavatappi, lame, lime, forbici e stuzzicadenti.
In quanto alla scrittura, la dattilografia si era già in parte evoluta con le macchine da scrivere elettriche ed elettroniche, che consentivano alcune minime funzioni di formattazione (corsivo, grassetto), di verifica e di correzione. Con il word processing e con le evoluzioni dei programmi di scrittura (dopo il 1983 Microsoft Word ha avuto nuove edizioni ogni due anni circa) è stato possibile spostare blocchi di testo, cercare automaticamente parole, sostituirle, cambiare il corpo dei caratteri; e poi correggere automaticamente, integrare immagini, contenuti multimediali; quindi, con l’arrivo di Internet, link a siti... Dal ristretto punto di vista della composizione linguistica del testo, però, la rivoluzione era presente sin dall’inizio. La dattilografia tradizionale, diciamo così unplugged, imponeva di comporre mentalmente la frase e poi batterla, per non perdere tempo e ritmo in laboriose sbianchettature manuali. Già con le macchine elettroniche si digitava una riga che compariva su un visore e si poteva correggere prima di farla stampare sulla carta con il comando di invio (Enter).
Il computer e il word processor resero possibile farlo non più soltanto riga per riga, ma su tutto il documento, fosse anche lungo quanto un intero libro. Risultato: non c’è stato più bisogno di pensare prima di scrivere. Poter modificare il testo all’infinito ha infatti comportato la liberazione definitiva della prima stesura. Scrivere tutto ciò che passa per la mente divenne facile, gratuito, innocuo e pressoché inevitabile. È «la felicità del primo acchito». Così almeno dice Jacopo Belbo, protagonista del Pendolo di Foucault di Umberto Eco (uscito nel 1988), che è fra le altre cose il romanzo del word processing: «Se scrivi con la penna d’oca devi grattare le sudate carte e intingere a ogni istante, i pensieri si sovrappongono e il polso non tien dietro, se batti a macchina si accavallano le lettere, non puoi procedere alla velocità delle tue sinapsi ma solo coi ritmi goffi della meccanica. Con lui, con esso (essa?) invece le dita fantasticano, la mente sfiora la tastiera, via sull’ali dorate, mediti finalmente la severa ragion critica sulla felicità del primo acchito».
Ci sarà poi tempo per correggere, infatti. Ma anche per formattare, per aggiungere, integrare, colorare, illustrare, costellare, ipertestualizzare, impaginare, dare forma di libro. Questa impressione di libertà sconfinata (o perlomeno smarginata) non avverte limiti che pure esistono. Lo «stile» prende nome dallo “stilo”, il primo strumento di scrittura di cui Microsoft Word è l’estrema evoluzione: e nessuno strumento è neutro. Primo limite: Word offre “modelli di testo” in cui riversiamo le nostre parole. Fra noi e la produzione della nostra scrittura si interpone, appunto, un’interfaccia, una pagina che proprio bianca non è, neppure materialmente (una barra di comandi la sovrasta). Il secondo limite è proprio l’assenza di limiti: l’immediatezza che rende scrivere più facile (e gradevole) che leggere, la pulizia esteriore che dà sempre l’impressione superficiale di lavoro ben fatto, la scrittura che non trova nella resistenza della materia un’occasione per ripensarsi. «Tutti gli usi della parola per tutti»: la struggente utopia di Gianni Rodari si rovescia quando dimentichiamo che la libertà di parola (e Word significa appunto parola) contempla anche la libertà di non usarla.
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