Tomaso Montanari
“Il Fatto“, 2 dicembre 2013
Nel giugno del 1888 Vincent Van Gogh era ad Arles, una meravigliosa città romana mangiata dal sole della Provenza.
Intorno al 18 di quel mese egli scrisse una lettera ad un amico – pittore come lui – che si chiamava Émile Bernard. Gli raccontò che, stando in mezzo alla campagna, non riusciva a non pensare ai quadri di un altro grande pittore, che si chiamava Jean-François Millet, e che aveva rappresentato come nessun'altro la vita semplice e sacra di chi vive in comunione con la natura.
Vincent provava a rifare a suo modo i quadri di Millet: ma i semi della sua pittura germogliavano in qualcosa di molto meno tranquillo.
Così Vincent descrisse il quadro che vedete: «Ecco uno schizzo di un seminatore: vasto terreno di zolle di terra arata, in gran parte di un viola deciso. Campo di grano maturo, d'un tono ocra giallo con un po' di carminio. Il cielo, giallo cromo chiaro quasi come il sole che è giallo cromo 1 con un po' di bianco, mentre il resto del cielo è giallo cromo 1 e 2 mescolati. Quindi molto giallo. la blusa del seminatore è blu, i pantaloni bianchi. Nel terreno ci sono molti richiami di giallo, dei toni neutri che risultano dalla mescolanza del viola col giallo; ma mi sono infischiato un po' della verità del colore».
Se guardate il quadro, vedrete che Vincent continuò a cambiare i colori, dopo aver scritto questa lettera: se ne infischiava della verità, ma era ossessionato dal colore. Il colore: che si è depositato sulla tela fino a sembrare uno strato di pongo, appena spatolato. Un colore che vien voglia di toccare: di mangiare, perfino.
In questi giorni di freddo che ci conducono a grandi passi verso l'inverno, un quadro come questo appare un condensato di sole e di caldo, una promessa di rinascita, una scorta di colore per attraversare i mesi più grigi.
Dipingendo i suoi quadri, Van Gogh era divorato dalla stessa ansia del suo seminatore. Che è l'ansia di tutti coloro che seminano: l'ansia di un futuro, di un risultato, di un raccolto. E poco importa se i semi faranno nascere piante o idee, frutti da mangiare o rivoluzioni che diano un senso alla pancia piena. Ma guardando i suoi quadri, e ricordando la sua vita dolorosa e difficile, noi percepiamo che c'è qualcosa di più importante del seme, qualcosa di più utile del raccolto stesso, qualcosa di più prezioso del risultato finale. Ed è l'amore con cui si semina: quell'amore, impastato di ansia, che rende inconfondibile ogni quadro di Van Gogh.
Vincent Van Gogh, Il seminatore, Otterlo, Museo Kröller-Müller.
L'opera "Il seminatore" mi fa venire in mente una prosa raramente limpida di Gabriele D'Annunzio.
RispondiElimina"..Avanzava pel campo direttamente, con una lentezza misurata. Gli copriva il capo una berretta di lana verde e nera con due ali che scendevano lungo gli orecchi, all'antica foggia frigia. Un sàccolo bianco gli pendeva dal collo per una striscia di cuoio, scendendogli davanti alla cintura, pieno di grano. Con la manca teneva aperto il sacco, con la destra prendeva la semenza e la spargeva. Il suo gesto era largo e sapiente, moderato da un ritmo uguale. Il grano, invallandosi dal pugno, brillava come faville d'oro e cadeva sulle zolle umide, egualmente ripartito. Il seminatore avanzava con lentezza, affondando i piedi umidi nella terra cedevole, levando il capo nella santità della luce. Il suo gesto era largo, gagliardo, sapiente, tutta la sua persona era semplice, sacra e grandiosa."(da "L'innocente").
La bellezza del dipinto proposto è tutta nelle tre fasce di colore che spiccano a partire dall'orizzonte: il giallo-oro, l'ocra e il cangiante squamoso della terra. Il seminatore ne assume quasi la zona umbratile nel suo stagliarsi fra le tre fasce.
(Può cancellare il primo commento, ho usato un vecchio account).